Omicidio Scopelliti: dopo trent'anni tanti misteri e zero verità
Il 9 agosto 1991 veniva ammazzato a colpi di fucile il pg del maxiprocesso alla mafia Antonino Scopelliti. La figlia Rosanna: «Diamo il segnale che la giustizia esiste e che ci si può fidare della magistratura»
«Verità e giustizia. In tempi ragionevoli. Per dare ai cittadini il segnale che la giustizia esiste e che ci si può fidare della magistratura». Sono passati trenta anni dall’omicidio di Antonino Scopelliti, il Procuratore generale di Cassazione ammazzato a colpi di fucile nel 1991, e sua figlia Rosanna, presidente della Fondazione che ne porta il nome, continua a chiedere verità e giustizia per quella morte ancora avvolta dal mistero. «Lo Stato come Padre severo e umano, che punisce, ma non abbandona i suoi figli – scrive sul suo profilo Facebook l’ex parlamentare di Forza Italia, attualmente in forza alla giunta di centro sinistra che regge la città metropolitana di Reggio Calabria –. Istituzioni che rieducano e reinseriscono nelle comunità cittadine chi sbaglia. Verità e giustizia oggi per le tante vittime di mafia. Per chi resta. Per chi ha il diritto di credere, sempre che ne è valsa la pena». Nel giorno dell’ennesimo anniversario per un omicidio eccellente rimasto ancora senza un colpevole, la figlia del giudice Scopelliti, da anni in prima fila nel mantenere vivo il ricordo del lavoro del magistrato ucciso dalla mafia, usa parole dai tratti amari per sottolineare il senso d’impotenza di fronte ad una “verità” che rimbalza da anni nelle aule di tribunale, ma su cui non si è ancora riusciti a scrivere la parola fine. «Trenta. Non so perché ci si aspetta sempre qualcosa di diverso, di grande dagli anniversari “tondi”. Come se a un certo punto portassero via tutto e occupassero con la loro rotondità ogni angolo della vita. Per un giorno ovviamente, poi si ricomincia a contare. Un po’ come le commemorazioni. Lacrime, abbracci e buoni propositi, poi ci si saluta e ci si dà appuntamento al prossimo anno. Un po’ più stanchi e un po’ meno soli, a volte. Per un po’. Trent’anni, dicevo – scrive ancora Scopelliti – E oggi le uniche parole che mi riecheggiano in testa sono: “verità e giustizia”. Perché di parole ne ho sentite tante, troppe. Perché resta il fatto che niente cambia e io non so più come affrontare questa doppia mancanza che affligge da anni le nostre vite. Non so più a quale speranza aggrapparmi, non ho una risposta sincera alla domanda: “ne è valsa la pena?” Ecco io a volte non lo so più se ne è valsa la pena. O meglio, lo so perché lo vedo negli occhi di mia figlia quando afferma orgogliosa di essere la nipote del “nonno Nino”, ma vacillo quando resto sola con il mio dolore e col peso dell’assenza».
Una carriera folgorante
Entrato in magistratura ad appena 24 anni, Antonino Scopelliti approda da giovane Pm a piazzale Clodio. Mafia, terrorismo nero, terrorismo rosso: le inchieste di cui quel magistrato intransigente si occupa segnano alcuni dei capitoli più complicati della storia d’Italia. Una carriera folgorante quella del giudice reggino che viene nominato magistrato di Corte d’Appello prima e di Cassazione poco dopo. Ed è proprio da sostituto procuratore di Cassazione che Scopelliti entra in alcuni dei più importanti processi dell’era repubblicana. Tra le sue mani passano infatti le stragi di piazza Fontana a Milano e quella di piazza della Loggia a Brescia; e ancora gli omicidi dei magistrati Occorsio e Amato e quelli di Aldo Moro e Rocco Chinnici ma anche l’esecuzione del giornalista del Corsera Walter Tobagi e quelle dei banchieri della mafia Calvi e Sindona. Quando il maxiprocesso di Palermo approda in Cassazione, è Scopelliti ad occuparsene. Lui sosterrà l’accusa davanti ai giudici del Palazzaccio. In quei giorni di agosto di 30 anni fa, il giudice si è fatto mandare in Calabria le carte del processo al gotha di Cosa Nostra per iniziare a lavorare su un procedimento che segnerà per sempre la storia giudiziaria della lotta al crimine organizzato siciliano.
Omicidio eccellente
Quello di Antonino Scopelliti è un omicidio per molti versi sorprendente. Mai in Calabria l’asticella è stata spinta così in alto. E sì che in quel 1991, l’intera provincia è scossa dagli ultimi rinculi della seconda sanguinosissima guerra di mafia che ha lasciato sul terreno circa 700 vittime in poco più di cinque anni. Una mattanza che troverà fine qualche tempo dopo l’omicidio di quel giudice dai modi gentili, ammazzato nella sua auto mentre torna dal mare nella casa di Campo Calabro in cui è cresciuto. Il gruppo di fuoco a bordo di una motocicletta affianca la Bmw del giudice su una collina a picco sul mare, agendo a colpo sicuro poco dopo le 17. Colpito alla testa due volte, il magistrato muore praticamente sul colpo, accasciandosi sul volante della sua auto ancora in movimento che prosegue la sua lenta corsa fino a sfondare una recinzione e cadere nel dirupo dove sarà ritrovata. Un omicidio clamoroso che sembra legare a doppio filo la storia del malaffare su entrambe le sponde dello Stretto. Quella passata alla storia come la stagione delle stragi è ancora lì da venire – la autobombe di Capaci e via d’Amelio arriveranno poco meno di un anno dopo – ma sia i primi due processi celebrati davanti al tribunale di Reggio e conclusi con un nulla di fatto, sia la nuova indagine imbastita dalla distrettuale antimafia sostengono l’esistenza di un patto tra le due organizzazioni: la vita del magistrato che si apprestava a giudicare le famiglie di Corleone da prendere nei feudi di ‘ndrangheta, in cambio dell’impegno per la pace da parte dei boss siciliani nella guerra che aveva decimato tutte le ‘ndrine dei tre mandamenti reggini. Tre anni fa, nel giorno del ventisettesimo anniversario dell’omicidio di Scopelliti, la Procura reggina aveva annunciato il ritrovamento, in un terreno agricolo nel catanese, dell’arma che secondo un collaboratore di giustizia era stata usata per giustiziare il giudice. Le successive indagini tecniche rivelarono che troppo tempo era passato per poter stabilire una correlazione tra quel vecchio fucile e la morte del magistrato, ma l’indagine è andata avanti e alla sbarra sono finiti alcuni dei nomi più pesanti del panorama criminale calabrese e siciliano: Piromalli, Pesce, De Stefano, Tegano, Araniti da questa parte dello Stretto e mammasantissima del calibro di Santapaola e Messina Denaro dall’altra, per una storia che aspetta da troppo tempo una soluzione e su cui servono, ricorda Rosanna Scopelliti, «Verità e giustizia. In tempi ragionevoli».