AVVOCATO

Partiamo dai numeri: dal 1992 ad oggi, circa 30.133 persone hanno ottenuto il risarcimento per ingiusta detenzione, moltissime non l’hanno ottenuta ( solo il 23% delle istanze viene accolta) e molte altre non l’hanno neanche richiesta. Questi sono numeri che fanno riflettere, così come deve far riflettere la somma che lo Stato italiano ha speso dal 1992 ad oggi per queste riparazioni: oltre 894 milioni di euro.

L’istituto della riparazione per ingiusta detenzione trova il suo fondamento costituzionale nei princìpi di inviolabilità della libertà personale ( articolo 13 della Costituzione) e di non colpevolezza fino alla condanna definitiva ( articolo 27 della Costituzione), oltre che nella previsione dell’articolo 24, che – al quarto comma – attribuisce al legislatore il compito di determinare “le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari”.

Inoltre, l’articolo 5 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955, n. 848, afferma che ogni persona vittima di un arresto o di una detenzione eseguiti in violazione della stessa Convenzione ha diritto a un indennizzo.

In armonia con questi princìpi, il codice di procedura penale, nel disciplinare le misure cautelari, agli articoli 314 e 315 prevede uno specifico procedimento per “compensare”, in chiave solidaristica ( articolo 2 della Costituzione), gli effetti pregiudizievoli che la vittima dell’indebita restrizione della libertà personale patisce, ovvero la riparazione per l’ingiusta detenzione subita a titolo di custodia cautelare.

All’origine di questo fenomeno gravemente e colpevolmente sottovalutato c’è soprattutto una custodia cautelare applicata anche per lunghi periodi, spesso con eccessiva leggerezza e con scarso senso di responsabilità, salvo poi risolversi il processo in un’assoluzione o in un proscioglimento. Come dimostrano le statistiche diramate dallo stesso ministero della Giustizia che ogni anno invia al Parlamento una relazione.

Nell’ultima, relativa all’anno 2021, si evince che la situazione dell’uso del potere cautelare si tramuta, spesso, in abuso da parte della magistratura. Il primo dato che balza agli occhi è che solo il 70% degli uffici giudiziari interpellati ( sezioni Gip- Gup e sezioni dibattimentali dei Tribunali) hanno inviato i dati necessari per la relazione, pur trattandosi non di una graziosa concessione ma di un adempimento dovuto. Desta ulteriore sconcerto che la percentuale delle risposte sia pressoché in costante calo nell’ultimo quadriennio ( 84% nel 2018, 86% nel 2019, 76% nel 2020 e 70% nel 2021).

Appare grave, e sinonimo nel migliore dei casi di una disorganizzazione preoccupante, che 3 uffici giudiziari su 10 non possano o non vogliano comunicare al ministero dati così importanti.

Scorrendo i numeri si evince che nel 2021 sono state emesse 81.102 misure cautelari personali. Erano state 82.199 nel 2020, 94.197 nel 2019 e 95.798 nel 2018. C’è un calo evidente, ma due fattori importanti inducono a considerarlo meno significativo di quanto sembrerebbe suggerire il puro dato numerico. Il primo, rilevato anche nella relazione, è l’incidenza della pandemia che, facendo diminuire drasticamente la circolazione degli individui, ha ridotto le occasioni di reato. Il secondo è che nel biennio 2018/ 2019 i dati sulle misure cautelari sono stati forniti da una percentuale di uffici giudiziari ben più alta di quella del biennio successivo, sicché è dato presumere che, se le due percentuali fossero state uguali o simili, la diminuzione delle misure sarebbe stata meno marcata di quanto risulta.

È quindi sensato affermare che la flessione del ricorso al potere cautelare appare dovuta più a fattori contingenti ( pandemia e incompletezza dei dati disponibili) che a maggiore cautela di pm e giudici.

La tipologia delle misure applicate lascia intendere che il carcere e gli arresti domiciliari sono le più gettonate. Gli arresti domiciliari ( con o senza “braccialetto”) e la custodia in carcere o in luogo di cura rappresentano il 56,2% delle misure totali, e la custodia in carcere ( 29,7%) è di gran lunga la misura più applicata, seguita a distanza dagli arresti domiciliari nelle due forme ( 25,7%), dall’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria ( 15,8%) e dal divieto di avvicinamento ( 10,4%).

Il ricorso alle due misure più afflittive pesava per il 57,6% nel 2020, per il 58,6% nel 2019 e per il 58,9% nel 2018. C’è quindi una modesta diminuzione, ma un fatto continua ad essere innegabile: il carcere e gli arresti domiciliari, cui si dovrebbe fare ricorso solo quando ogni altra misura è inadeguata, continuano a essere il destino più probabile per chi è oggetto delle iniziative cautelari. Il dato più significativo è che nel 20% dei casi la misura cautelare non doveva e non poteva essere applicata.

TROPPI TRIBUNALI NON FORNISCONO NEPPURE I DATI

CON L’ALTRA SOLUZIONE PIÙ SEVERA, I DOMICILIARI, LA RECLUSIONE IN CARCERE CONTINUA A ESSERE LA MISURA CAUTELARE PIÙ GETTONATA DALLE TOGHE: NEL 2021, I DUE PROVVEDIMENTI HANNO COSTITUITO IL 56,2% DEL TOTALE. E L’IMPRESSIONE CHE NON SI COLGA LA DELICATEZZA DI QUESTO STRUMENTO NASCE PURE DAI TROPPI UFFICI GIUDIZIARI CHE NON NE FORNISCONO I DATI