Un ragazzo vestito di bianco e di ruggine, scrive il giornalista Carlo Laurenzi quando il corpo di un ragazzino viene ritrovato sepolto nelle dune della pineta di Marina di Vecchiano. È il 9 marzo 1969 e quel ragazzo, Ermanno Lavorini, 12 anni e boccoli biondi, lo cercano ormai da due mesi. Lo hanno rapito e ucciso e all’inizio nessuno capisce perché. Una telefonata a casa reclama un riscatto di 15 milioni al padre commerciante di stoffe. Inutile, perché Ermanno muore lo stesso giorno in cui lo portano via, il 31 gennaio di 52 anni fa, 10 minuti prima di quella telefonata. Ed è il primo bambino della storia italiana ad essere rapito.

È una storia con tante vittime, quella del piccolo Ermanno. E lui, quel bimbo, è la prima. Le altre vite rubate sono quelle degli uomini dati in pasto alla folla, ai giornali, colpevoli solo di essere «capovolti». Li chiamano così, sulla carta stampata, gli omosessuali. A caratteri cubitali, marchiati a fuoco. Le altre vittime sono Adolfo Meciani, ucciso dalla vergogna e dalla disperazione dopo una brutale aggressione mediatica, e Giuseppe Zacconi, a cui si ferma il cuore per il peso dell’umiliazione.

Quella tragica giornata inizia con Ermanno che dopo pranzo inforca la bici rossa ricevuta a Natale per andare al luna park. È l’ultimo venerdì di gennaio e il ragazzino promette a sua madre di rimanere fuori solo un’ora. Ma arriva la sera ed Ermanno ancora non si è fatto vivo. Sono quasi le 18 e la tensione in casa viene spezzata dal suono del telefono. Marinella, la sorellina, alza la cornetta: «Ermanno non tornerà a casa, anzi ritorna dopo cena scandisce la voce di un uomo - Dica a suo padre di preparare quindici milioni e di non avvertire la polizia».

Le forze dell’ordine annaspano fino a quando, poche settimane dopo, un maresciallo dell’Aeronautica, passeggiando sulla spiaggia, vede delle macchie di sangue e il corpo senza vita di Ermanno spuntare dalla sabbia. Non si capisce cosa gli sia capitato, ma è vestito e non ci sono segni di abusi. Gli investigatori provano a far quadrare le cose, sentono gli amici del ragazzino e arrivano a tre sospettati: Marco Baldisseri, 16 anni, Rodolfo Della Latta, becchino, detto Foffo, 20 anni, e Andrea Benedetti, detto “Faccia d’angelo”, 14 anni. Sono tutti estremisti di destra, iscritti al Fronte monarchico giovanile. Ragazzi scapestrati, che si vendono agli omosessuali della pineta e che, piano piano, uno dopo l’altro, crollano. Prima Baldisseri, poi Foffo, poi Benedetti. Marco dice di aver litigato con Ermanno, di averlo colpito con un pugno e averlo visto morire. Omicidio «per futili motivi», caso chiuso, dice alla stampa il 20 aprile il colonnello De Julio.

Ma non è chiuso affatto e lo scandalo scoppia presto fragoroso. Marco prende in giro gli inquirenti, accusa decine di persone, cambia versione cento volte. Incolpa perfino suo padre, poi se stesso, poi parla di droga e orge. La pineta è il luogo in cui si incontrano «gli invertiti». E allora non ci vuole molto a formulare l’equazione omosessuali uguale pedofili. Si indaga nel «mondo degli anormali», scrivono i giornali, abitanti di una «oscena, lurida, Sodoma». L’assassino altro non sarebbe che un «pederasta viareggino» con la maschera di uomo rispettabile. Un omosessuale, «un mostro».

Alle etichette, ben presto, si sostituiscono i nomi, dettati da Baldisseri. Il primo è il figlio dell’attore Ermete Zacconi, Giuseppe, proprietario del cinema Eden, costretto calarsi i pantaloni davanti ai poliziotti per dimostrare di essere impotente dalla nascita e, dunque, innocente. Pochi mesi dopo, nel 1970, stremato dagli interrogatori, il suo cuore si ferma. «Mi hanno tolto la merda di dosso - dice - ma il puzzo è rimasto». Incolpa anche il sindaco della giunta socialista di Viareggio e il presidente dell’azienda di soggiorno, poi scagionati. E tocca infine ad Adolfo Meciani, ricco e affascinante titolare di stabilimenti balneari di Viareggio, fama di latin lover e un segreto dentro. Ha una moglie, dei figli e un alibi. Ma frequenta la pineta di Marina di Vecchiano, dove, dice Baldisseri, «rimorchia i ragazzini», compreso Ermanno, «drogato, spogliato e ucciso con un’iniezione endovena».

Adolfo cade in depressione, perde 10 chili e finisce in clinica. «Dopo la scomparsa di Lavorini - scrivono i medici - è subentrata in lui, ossessionante, la paura che questa sua tendenza ( l’omosessualità, ndr) potesse essere resa palese, che lo sapesse la moglie, che venissero rovinati reputazione, matrimonio, figlio». Non dorme, viene divorato dall’ansia e dalla depressione. In 25 giorni subisce sette elettrochoc. E intanto, fuori, la stampa se la prende con gli «immondi» omosessuali, da L’Espresso al Borghese.

Adolfo con Ermanno non c’entra nulla, ma non riesce ad attendere. Finisce in carcere più volte, rischiando anche il linciaggio davanti alla caserma dove viene interrogato. Terrorizzato e umiliato, in una cella a Pisa decide di dire basta. Strappa un lenzuolo, lo assicura al termosifone, lo lega al collo e si impicca. Rimane in coma qualche giorno prima di morire. E sua moglie, al funerale, indosserà l’abito da sposa.

È un giornalista, Marco Nozza, ad accorgersi che Baldisseri porta al bavero un simbolo monarchico. È il giovane cassiere del Fronte giovanile, il cui segretario è Pietro Vangioni, militante di destra. La sede viene improvvisamente smantellata, le carte scompaiono. Ma Baldisseri gli punta il dito contro: «è stato Vangioni a organizzare il rapimento, avremmo dovuto estorcere dieci, quindici milioni ai Lavorini e quindi uccidere Ermanno», con lo scopo di finanziare alcune attività eversive.

Ed è questa la verità consegnata alla storia, nel 1977, con una sentenza definitiva di condanna: 8 anni e sei mesi a Baldisseri, 11 anni e 10 mesi a della Latta, 9 anni a Vangioni, poi tutti condonati di due anni. Ma nessuno, a parte Nozza, scrive più nulla. «Finché c’erano da raccontare i particolari morbosi, fin quando il movente pareva sessuale, tutti a scrivere, a commentare, a stigmatizzare - scrive -. Ma quando venne fuori la squadraccia del Fronte, l’interesse si sgonfiò».