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Di dannatamene certi e sotto molti aspetti sfortunati, nella vicenda giudiziaria e politica del candidato forzista Pietro Polizzi al Consiglio Comunale di Palermo, ci sono i soli cinque giorni che ne hanno separato l’arresto per voto di scambio d’interesse mafioso dall’apertura delle urne amministrative e referendarie di domenica prossima. Di dannatamente certi e sotto molti aspetti sfortunati anch’essi ci sono i 19 giorni, non due, quattro o sei, trascorsi tra l’intercettazione di Polizzi a colloquio col già famoso condannato di mafia Agostino Sansone, agli arresti domiciliari, e della sua “spalla” Manlio Porretto, e la cattura dei tre disposta dal giudice delle indagini preliminari. Del tutto incerti invece rimangono i giorni che saranno necessari per terminare le indagini, rinviare eventualmente a giudizio gli interessati e attendere la fine del processo. Non dovrei scrivere nulla anche a causa della rapidità con la quale il capo di Forza Italia in Sicilia Gianfranco Miccichè, e presidente dell’assemblea regionale, garantista per la sua stessa militanza politica, ha scaricato il candidato, proveniente peraltro dall’Udc e incensurato, preannunciando la costituzione del suo partito come parte civile in caso di processo. E tentando una cauta difesa solo di un’altra candidata, sempre al Consiglio Comunale, Adelaide Mazzarino, moglie di Eusebio D’Alì, vice presidente dell’azienda dei trasporti, anch’essa coinvolta nelle indagini come sospetta beneficiaria di sostegno mafioso. E che da parte sua, dichiarandosi “sconcertata, senza più voglia di proseguire”, ha annunciato di considerare “finita qui” la sua campagna elettorale, inconsapevole dell’attenzione guadagnatasi in certi ambienti. Non dovrei scrivere nulla, dicevo. E invece ne scrivo per tornare non so neppure io ad esprimere più lo sconcerto sui tempi delle indagini e degli arresti o la solidarietà - come preferite - per la sfortuna dei magistrati i cui tempi di lavoro ancora una volta si trovano a coincidere casualmente - per carità - con i tempi della politica e, più in particolare, delle elezioni: stavolta persino dei referendum sui problemi della giustizia. Uno dei quali riguarda proprio la candidabilità o eleggibilità degli amministratori locali con la proposta abrogazione della cosiddetta legge Severino, dal nome della guardasigilli del governo tecnico di Mario Monti, più famosa in verità per l’applicazione retroattiva che nel 1983 fu fatta ai danni dell’allora senatore Silvio Berlusconi, decaduto da parlamentare con voto inusualmente palese dopo una condanna definitiva per frode fiscale poi contestata in sede europea. La coincidenza fra i tempi politici e quelli giudiziari ha fornito l’occasione o il pretesto, come preferite, alla capogruppo di 5 stelle ad una commissione parlamentare della Giustizia di motivare il no della sua parte politica al referendum sulla legge Severino nel confronto col vice presidente leghista del Senato Roberto Calderoli, in sciopero peraltro della fame, nello speciale televisivo di Enrico Mentana dell’8 giugno, il giorno proprio dell’arresto di Polizzi. Date e numeri, più in generale, parlano da soli. E oltre ad intossicare ulteriormente le elezioni comunali di Palermo, e in prospettiva quelle regionali siciliane del prossimo autunno, per il sostanziale ritorno alla politica dell’ex governatore Totò Cuffaro, orgogliosamente propostosi la resurrezione della Dc ora che lui ha pagato tutti i suoi debiti di mafia alla giustizia, dimostrano come tutto purtroppo congiuri in Italia perché i rapporti fra politica e giustizia rimangano opachi. Sembra una maledizione, oltre che una disgrazia.