Francesco Clementi, professore ordinario di diritto pubblico italiano e comparato a La Sapienza e reduce dalla sua fatica letteraria, Il Presidente del Consiglio dei Ministri. Mediatore o Decisore? edito da Il Mulino, spiega che l’intento della riforma costituzionale è corretto, «perché abbiamo bisogno di riforme che migliorino la nostra forma di governo e sanino le ben note nostre “degenerazioni” del parlamentarismo», ma il testo approvato ieri dal Cdm «è pieno di paradossi» e appare «ambiguo, incoerente, confuso».

Professor Clementi, Giorgia Meloni ha parlato dell’elezione diretta del capo del governo come della «madre di tutte le riforme». Se approvata, pensa che la riforma possa garantire stabilità al nostro sistema politico?

L’intento è corretto, perché abbiamo bisogno di riforme che migliorino la nostra forma di governo e sanino le ben note nostre “degenerazioni” del parlamentarismo. Ma il testo è ambiguo, incoerente, confuso. Insomma, scritto male, se l’obiettivo è la stabilità di governo. Perché questa non vi sarà. È pieno di paradossi: si persegue l’elezione diretta, perché si pensa che dia stabilità, invece dà solo rigidità in quanto il presidente del Consiglio – si badi: il nome non cambia in Primo ministro, un segnale – non ha i poteri che hanno i suoi omologhi colleghi, a partire dalla revoca dei ministri. E questa rigidità impedisce il corretto funzionamento della forma di governo. E poi il presidente eletto è ostaggio di una maggioranza blindata, che può sfiduciarlo quando vuole. A che serve allora una campagna elettorale “presidenzialistica”, con un presidente del Consiglio legittimato direttamente dal voto degli italiani, che però rimane a poteri invariati, e che finirà per essere vittima della sua maggioranza, oppure – se posso dirla così – “tutto chiacchiere e distintivo”? Non serve a nulla. Tranne appunto a rendere più ingessato e confuso il tutto. Una scelta tanto surreale, quanto inspiegabile.

Nel testo si parla dell’elezione diretta del capo del governo ma si rimanda alla successiva legge elettorale l’eventuale introduzione di un quorum così come il numero dei turni per eleggere il Premier e assegnare la maggioranza del 55% dei seggi. Che ne pensa, visto anche il precedente nefasto del 2016 con l’accoppiata riforma costituzionale-Italicum?

Beh, se si sceglie di introdurre una forma presidenzialistica ad elezione diretta, è inevitabile che ciò si accompagni anche ad nuova legge elettorale. Ma anche qui: non soltanto l’assenza di una soglia minima per accedere al premio - requisito imposto da due note recenti sentenze della Corte costituzionale in tema - rende difficile immaginare una reale plausibilità democratica per questa legge, a maggior ragione di fronte alla naturale previsione di un ballottaggio a due per l’elezione diretta, ma appare sorprendente inoltre che, votando con una scheda unica, il disegno di legge del governo Meloni non si ponga affatto il problema del rischio di ritrovarsi con due maggioranze parlamentari distinte tra Camera e Senato, posto che la fiducia in questo caso rimane ancora bicamerale. Insomma, anche su questo, sulla legge elettorale, una confusione ed un pasticcio tecnico non da poco. Per non parlare poi del premio da dare al vincitore che desta non pochi dubbi sul suo ammontare.

Mi fa un esempio?

Non essendoci alcun vincolo coalizionale nel testo, lei deve immaginare che sia possibile attribuire questo premio anche al primo partito vincitore delle elezioni. Questo vorrebbe dire, ad esempio, che nel 2013 il Movimento 5 Stelle, che da solo prese il 23,8% dei voti, avrebbe preso il 55% dei seggi del Parlamento. Più del doppio dei voti presi per un singolo partito in termini di seggi: a me, francamente, non pare poco. Insomma, torno a dire: un bel pasticcio.

Una delle novità più importanti è la cosiddetta sfiducia costruttiva “vincolata”: Cosa potrebbe cambiare nei rapporti di forza tra i partiti di maggioranza?

La situazione che si verrebbe a porre sarebbe questa: il presidente eletto direttamente sarebbe solo, nei fatti, un raccoglitore di voti per la coalizione o il singolo partito che guida. Nei fatti, sin dal giorno dopo, uno degli altri leader della coalizione, magari più abile politicamente nel tessere accordi incrociati, potrebbe rapidamente sfiduciarlo e divenire presidente del Consiglio, senza per questo portare il Paese ad un voto anticipato. Insomma, si incentiva la conflittualità tra i leader dei partiti della maggioranza. Altro che sindaco d’Italia. Qui il primo è lo specchietto per le allodole, utile “testa di legno” per raccogliere i voti. È il secondo premier, in realtà, quello che davvero governerà. Insomma, il vero ribaltone è quello del presidente del Consiglio eletto direttamente, perché, ostaggio della sua maggioranza, le sue possibilità di rimanere in carica saranno molto basse, mentre la sua maggioranza rimarrà invece ben salda, guidata dal secondo presidente.

L’opposizione propone la sfiducia costruttiva “classica”: crede un sistema del genere avrebbe aiutato a garantire governabilità?

La sfiducia costruttiva, come in Germania, dove i governi sono molto più stabili del nostro, è di certo uno strumento apprezzato. A mio avviso lo si dovrebbe adottare anche perché impone una chiara assunzione di responsabilità da parte di una maggioranza politica che, nello sfiduciare il suo capo del governo, spiega pubblicamente agli elettori le ragioni che impongono un cambio di premiership. Insomma è contro ogni forma di crisi- extraparlamentari, che sono invece la regola nel nostro Paese.

Il presidente della Repubblica, nel nuovo sistema, non nomina il capo del governo ma gli “conferisce” l’incarico sulla base del voto dei cittadini: crede al rischio che la figura del capo dello Stato diventi poco più di un orpello?

Beh, il capo dello Stato esce drasticamente indebolito, innanzitutto nella sua funzione propria: quella di “reggitore nello stato di crisi”, come ebbe a dire un famoso costituzionalista nel secolo scorso. Il presidente della Repubblica non potrebbe neanche intervenire per salvare il Paese quando il sistema politico- partitico va in crisi oppure quando gli eventi esterni rendono impossibile alle maggioranze politiche governare i processi. Si vuole spegnere, insomma, quel “motore di riserva” del Paese, che tanti ci invidiano: quel garante, arbitro di ultima istanza, che tante volte ha salvato lo Stellone d’Italia. E poi: che senso ha ridurre i poteri mediazione del presidente della Repubblica se invece contemporaneamente si amplia il trasformismo parlamentare gestito dal secondo premier della legislatura?

In passato i senatori a vita hanno rivestito un ruolo a volte decisivo, come nel secondo governo Prodi: quali conseguenze avrà la loro abolizione?

Se ne può certamente discutere ma insomma, di fronte al monocameralismo di fatto in un bicameralismo ancora vigente, al rapporto tra Stato e Regioni di un Titolo V che ancora tanto ci dà da penare, questioni che questo testo neanche affronta, mi chiedo se i senatori a vita siano davvero la prima priorità nelle riforme da adottare. Mi pare più uno specchietto, magari utile per fare propaganda becera, quasi di stampo populista, in un eventuale referendum che questo testo potrebbe subire che altro.