È immanente al sistema democratico il diritto della collettività ad essere informata sui fatti di interesse pubblico ed è corrispondente e speculare il dovere dei mass media di fornire informazioni complete e tempestive. Una notizia non è soltanto il fatto che la costituisce, ma anche il mezzo che la veicola, perché, all’evidenza, l’argomentazione e la modalità espositiva partecipano del contenuto del fatto medesimo. Ogni diritto, pure quelli di rango costituzionale, incontra limiti che lo preservano dal tracimare nell’arbitrio. Attorno a queste premesse andrebbe organizzato qualsiasi ragionamento sulla informazione giudiziaria, il quale, entrando su un fatto che costituisce (o, più spesso, forse costituirà) oggetto di accertamento penale, ha la naturale e obbiettiva vocazione ad anticiparne indebitamente gli esiti.

E poiché di nessun fatto umano, quand’anche apparentemente chiaro, si può garantire la certezza, tanto più quando è stabilito che per delinearne gli esatti contorni si debbano usare le regole puntuali di uno specifico strumento chiamato processo penale, prudenza e sobrietà vorrebbero, per un verso, che chi fornisce informazioni lo faccia limitandosi alle oggettività minime ostensibili, senza danno insomma per il prosieguo dello stesso accertamento e per i soggetti coinvolti e, per l’altro, che chi quelle informazioni è deputato a veicolare si astenga da sensazionalismi d’accatto, mirati solo ad acchiappare like o, per usare immagini d’antan, a far vendere qualche copia in più. Non sono sobrietà e prudenza fine a se stesse. Per almeno tre ragioni, da esse dipendono conseguenze gravi e potenzialmente irreversibili.

La notizia di stampa anticipa ogni forma di giudizio processuale e, intuitivamente, può condizionarlo. È pia illusione, tutta italica, quella secondo cui il giudice professionale non risente del battage assordante che accompagna i fatti che egli stesso dovrà scrutinare. Forse non sarà proprio vero che “justice is what the judge ate for breakfast”, ma solo ignorando i meccanismi ormai ampiamente disvelati del bias cognitivo si può affermare che il giudice sappia perdere la sua umanità nel momento di formare il proprio convincimento, trovando chissà come il modo di restare impermeabile a una narrazione sempre più martellante e pervasiva. Tanto più che, nel corso formativo e professionale, può accadere che nessuno gli abbia spiegato, se non per caso, che i bias esistono per davvero; tanto meno come eventualmente fronteggiarli.

La notizia di stampa è l’unica cosa che lega il fatto alla collettività. Superata la partecipazione diretta all’accadimento processuale ( di pubblico ai processi non ve ne era più nemmeno prima della pandemia), l’unico modo per sapere cosa succede è leggere o ascoltare quello che altri, non sempre con tutta la competenza necessaria ad affrancarlo dalla fonte e a garantire la qualità del narrato, racconta di una questione. La mediazione informativa è dunque essa stessa informazione e, come tale, determina la pubblica opinione in un senso piuttosto che in un altro, incidendo la carne viva dei soggetti coinvolti, talvolta irrimediabilmente e spesso anche ingiustamente.

I tempi dell’informazione non sono i tempi della notizia. Arrivare primi è diventato quasi più importante che arrivare bene, perché bucare la notizia, in certi casi, è quasi peggio che darne una farlocca o non del tutto verificata. E se l’informazione deve correre, ciò che va in pasto all’utente non è certo il processo, le prove, il contraddittorio, che arrivano a distanza di anni dal fatto, ma l’indagine, gli arresti, l’accusa, che invece sono subito pronti, spesso grazie alla loquacità di chi questa fase amministra. E d’altro canto, quando a dare la notizia non è un quisque de populo ma, nientemeno, un ufficiale di polizia giudiziaria o persino un pubblico ministero, si comprende come, nel paese in cui chi giudica e chi accusa fan parte della stessa schiera, il dovere di verifica tenda ad affievolirsi fino quasi a scomparire. L’intreccio che consegue, tra notizie fornite di primo acchito senza ponderazione, buone forse solo a guadagnare la ribalta e narrazioni lontane per modi e forme dal giornalismo cane da guardia del potere ( foss’anche giudiziario) è quasi gordiano e nemmeno gli interventi normativi europei sembrano riuscire a scalfirne la dura corazza.

Che si spezzi il cavo di una funivia causando 14 vittime è una notizia di sicuro interesse pubblico che non solo può, ma deve essere data con tempestività e completezza. Per quale ragione però tale notizia debba essere condita non solo con ipotesi sulla cause dell’accaduto ( il che sarebbe ancora comprensibile), ma persino con l’indicazione di precise responsabilità, declinate peraltro con il piglio della certezza in una fase in cui di accertamenti ancora nemmeno l’ombra, questo resta un mistero. Il cuore del problema è, insomma, provare a capire se esista un limite al diritto- dovere di informare o, per meglio dire, se sia possibile costruire l’esercizio di tale diritto- dovere in modo da preservarne l’integrità, essenziale al funzionamento democratico, ma, al contempo, da evitare pregiudizi per l’accertamento processuale delle responsabilità e per la vita delle persone coinvolte, che ne esce il più delle volte distrutta.

È un tema cruciale che, già solo per essere correttamente inquadrato, richiede sforzi interpretativi di altra caratura: qui non se ne può dire oltre. Ma si possono invece ribadire i danni di un errore di prospettiva, come l’Unione delle Camere Penali italiane va dicendo ormai da tempo. Proprio come nella vicenda della funivia del Mottarone. Tre cittadini, non appena indagati e fermati, sono stati annientati da una campagna di stampa denigratoria che non solo li ha erroneamente descritti come colpevoli e confessi, ma ha addirittura individuato nella becera avidità il movente di siffatte deplorevoli condotte. Nient’altro che un giudizio sommario di piazza, nutrito della sola idea dell’accusatore e fulmineamente giunto al verdetto.

Poi però, dopo i giorni di mezzo, le iniziali certezze, declinate in maniera quasi compunta dall’investigatore – vai a capire perché – a favore di telecamera, non hanno retto nemmeno al primo vaglio giurisdizionale che ha proiettato sui fatti una diversa luce: fantasioso che i tre fermati avessero pienamente confessato; insussistente il pericolo di fuga che avrebbe legittimato il fermo, peraltro vacuamente invocato dalla procura in ragione di un clamore mediatico che lo stesso ufficio richiedente ha, in qualche misura, contribuito ad alimentare. In queste condizioni, tolti i domiciliari per l’unico che ha ammesso i fatti ( dai quali, si badi, non è ancora verificato che sia dipesa la catastrofe), la misura carceraria richiesta non ha basi per nessuno; men che meno il convincimento di colpevolezza. Come avviene non abbastanza spesso, è accaduto insomma che la ruota della giostra si sia inceppata e che, per fortuna e meriti di qualcuno che il suo lavoro lo sa fare in silenzio, siano stati svelati i piccoli marchingegni che hanno contaminato il meccanismo. Se ciò non fosse accaduto, tuttavia, avremmo segnato un’altra tacca ( forse tre) sul calcio logoro del processo mediatico.

Che si spezzi il cavo di una funivia causando 14 vittime è una notizia di sicuro interesse pubblico che non solo può, ma deve essere data con tempestività e completezza. Ma proprio questa doverosità rende più evidente quanto delicato possa essere (o diventare) il rapporto tra il fatto e la sua narrazione e quanto imperativo sia divenuto disciplinare in maniera puntuale, fors’anche con una legge, un mercato dell’informazione che non si è dimostrato sin qui in grado di farlo in autonomia.

*Giuseppe Belcastro, co-responsabile Osservatorio Informazione Giudiziaria Ucpi