Piuttosto che festeggiare i 70 anni trascorsi oggi dalla promulgazione della Costituzione repubblicana, bisognerebbe chiedersi onestamente che cosa ne sia rimasto dopo le modifiche, non poche, apportate da allora: soprattutto quelle del 1992 e del 1993. Che segnarono obiettivamente l’inversione dei rapporti fra la politica e la magistratura voluti dai padri costituenti, rivoltatisi probabilmente nella tomba per lo scempio compiuto del loro lavoro. Sì la Costituzione era bella, poi l’hanno un po’ sfregiata...

Nel mese di marzo del 1992, proprio sul finire della legislatura cominciata cinque anni prima ( e quando già soffiavano i venti delle indagini sulla cosiddetta Tangentopoli esplosa il 17 febbraio a Milano con l’arresto di Mario Chiesa), fu stravolto l’articolo 79 della carta costituzionale: quello che disciplinava l’amnistia e l’indulto affidandone al Parlamento la disposizione, cui avrebbe poi solo formalmente provveduto con decreto il presidente della Repubblica.

Nel nuovo testo solo apparentemente le Camere acquistavano potere ancora maggiore provvedendo direttamente, con la riduzione del ruolo del capo dello Stato alla semplice promulgazione della legge, come di tutte le altre. In realtà, il Parlamento si legava le mani a tal punto da rinunciare di fatto al suo intervento rendendo impossibile l’amnistia. Altro non significa, nella sostanza, come i fatti hanno dimostrato con ampiezza, la “maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale” richiesta alla legge di amnistia e indulto dal nuovo articolo 79 della Costituzione. La maggioranza parlamentare dei due terzi in una materia del genere è una chimera.

L’unica forma di amnistia sopravvissuta alla modifica costituzionale del 1992 è quella praticata con l’istituto della prescrizione. Il cui uso malaccorto i giustizialisti attribuiscono in mala- fede sfacciata soltanto agli avvocati degli imputati, capaci di mandare per le lunghe i processi, sino appunto a vanificarli. In realtà, come già denunciava la buonanima di Marco Pannella e confermano i dati deliberatamente ignorati dai tifosi delle Procure, la maggior parte delle prescrizioni matura nelle mani e fra le carte dei magistrati inquirenti. E con la discrezione, negata a parole ma innegabile nei fatti, con la quale essi applicano l’evanescente principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale. Come se questo non fosse bastato, una politica più pusillanime che preveggente, ormai sotto schiaffo per le iniziative giudiziarie sul deplorevole – certo ma diffusissimo finanziamento irregolare dei partiti, ignorato o tollerato sino ad allora, mutilò spontaneamente l’anno dopo l’articolo 68, riguardante le immunità dei parlamentari. Per il cui arresto, perquisizione e intercettazione soltanto si stabilì che fosse ancora necessaria l’autorizzazione della Camera di appartenenza. Per “procedere” contro di loro nelle indagini, dopo che l’avviso di garanzia era già stato trasformato dai giornali in un rinvio a giudizio, per giunta con processi mediatici, non in tribunale, i magistrati non avevano più bisogno di niente.

Ancora, come se tutto questo non fosse neppure bastato, anche le immunità sopravvissute per le intercettazioni sono state di fatto ridotte a niente, o quasi, perché sempre più di frequente i politici sono stati messi alla berlina con le intercettazioni eseguite sulle linee degli interlocutori, come se fosse la cosa più normale di questo mondo. C’è stato addirittura un presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che per proteggere le sue prerogative costituzionali, una volta intercettato a colloquio col suo ex vice presidente al Consiglio Superiore della Magistratura Nicola Mancino, dovette ricorrere contro la Procura di Palermo davanti alla Corte Costituzionale. E sentirsi poi dire da un giurista e presidente emerito della stessa Corte di averla di fatto intimidita con la sua iniziativa, obbligandola a dargli ragione.

A proposito di Mancino, sotto processo a Palermo in Corte d’Assise per falsa testimonianza nelle indagini sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia nella stagione delle stragi, quando allo stesso Mancino era capitata la disavventura di succedere al collega di partito Vincenzo Scotti come ministro dell’Interno, c’è anche da ricordare lo scempio, a dir poco, che è stato fatto delle originarie garanzie di governo.

Fu forse giusto, per carità, togliere alla Corte Costituzionale nel 1989 la prerogativa di processare i ministri, oltre che il presidente della Repubblica. Ma non mi sembra che sia stato altrettanto giusto disattendere le competenze dei tribunali dei ministri all’uopo regolati con legge costituzionale, cui la magistratura può portare gli uomini di governo previa autorizzazione parlamentare.

E’ proprio al tribunale dei ministri, con tanto di passaggio per il Senato, che Mancino avrebbe dovuto essere mandato se accusato formalmente del reato addebitato agli attori della presunta trattativa e coimputati al processo di Palermo, fra i quali i due capimafia morti nel frattempo: Bernardo Provenzano e Salvatore Riina. Ma, accusato solo di falsa testimonianza nelle indagini, Mancino è potuto finire in quella compagnia davanti ad una Cote d’Assise ordinaria. E aspetta il verdetto.

Anche Silvio Berlusconi, prima di essere assolto in appello e poi anche in Cassazione, rivendicò nel cosiddetto processo Ruby per prostituzione minorile di essere deferito al tribunale dei ministri, essendo stato accusato di avere praticato concussione al telefono sulla Questura di Milano, quando era presidente del Consiglio, per alleggerire – diciamo così - la posizione dell’amica marocchina fermata dalla Polizia. Ma non ci fu verso. La magistratura ordinaria si tenne ben strette le indagini e le competenze su di lui.

Si è detto e scritto della Costituzione promulgata 70 anni fa che sia, nonostante la sua età, la più bella del mondo. Può esserlo stata, ma da giovane, sino agli sfregi procurati dal giustizialismo. Che solo a parole ha dovuto subire nel 1999 qualche sacrificio con la formulazione dell’articolo 111 sul “giusto processo” e sulla sua “ragionevole durata”. Tanto ragionevole che il già ricordato processo a Mancino è in corso a Palermo, solo nel suo primo grado, dal 27 maggio 2013. Sta durando quanto la legislatura agli sgoccioli. E ciò per non parlare delle indagini a monte, di altri processi e di altri imputati.