Il processo per accertare le responsabilità sulla morte di Stefano Cucchi farà il suo corso. Una riflessione, però, va fatta e riguarda una lacuna colossale nel nostro ordinamento: quella del reato di tortura.

Il processo per accertare finalmente le responsabilità sulla morte di Stefano Cucchi farà il suo corso e spero che sia condotto all’insegna del rispetto di tutte le garanzie per coloro che saranno imputati, e senza passare da un eccesso all’altro: dall’omertà corporativa tra i tutori dell’ordine alla ricerca di responsabili chiunque essi siano e alla loro condanna esemplare.

Una riflessione, però, va fatta e riguarda una lacuna colossale nel nostro ordinamento, quella del reato di tortura, una fattispecie che avrebbe potuto essere rilevata nel caso di Stefano Cucchi, se il nostro Paese non avesse perso oltre un quarto di secolo senza ancora arrivare a sanzionare un crimine contro l’umanità come la tortura.

Papa Francesco ha introdotto il reato di tortura in un giorno e ha abolito anche l’ergastolo, l’Italia non ha ancora ottemperato a un impegno preso nel 1989, quando ha ratificato la Convenzione Onu contro la tortura.

Ma la cosa più grave è che, dopo 28 anni, nel momento di discutere la legge sull’introduzione del reato di tortura, l’ha fatto in una maniera singolare, all’italiana, cioè non sotto dettatura della norma internazionale come andava fatto, non come reato comune, ma come reato specifico, tipico del comportamento di un pubblico ufficiale nelle sue vesti di responsabile di investigazione o indagine giudiziaria su persone sospettate di reato, di custodia e tutela di una persona privata della libertà personale.

Nella concezione del Diritto Internazionale e della Convenzione Onu, la tortura non è una fattispecie di reato che si può commettere tra due privati cittadini: è concepita laddove c’è un obbligo di custodia, dove c’è un obbligo giudiziario di intervento.

Si vuole invece introdurlo come un delitto comune: un delitto cioè che può essere commesso in famiglia, fra criminali, in un consesso mafioso. Nella legge in discussione al Senato, è prevista in questi casi solo una circostanza aggravante che è quella per cui la pena è aumentata - per arrivare magari alla pena dell’ergastolo ( ancora una volta, da un eccesso all’altro) - se a commettere atti di tortura è un pubblico ufficiale.

Inoltre, la previsione del reato in discussione in parlamento è una fattispecie medioevale, vincolata a forme di violenza fisica, che lascia del tutto scoperte le più moderne forme di tortura come, ad esempio, lasciare senza cibo, lasciare nudi e al freddo, tenere sempre accesa, o sempre spenta, la luce nei luoghi di detenzione, mettere la musica ad altissimo volume, costringere a posture innaturali, etc. Infine, nel testo all’esame del Senato manca del tutto l’insieme di regole previste dalla Convenzione per prevenire gli illeciti, dalla formazione del personale di polizia, civile, militare, medico al sistema di identificazione degli agenti.

Anche in questo caso, sullo Stato di Diritto e i Diritti Umani tende a prevalere la logica emergenzialista del Potere e della Ragion di Stato ( con tutti i suoi segreti e armamentari di Stato), logica tipica non delle democrazie liberali, ma di quelle che Marco Pannella ha definito “democrazie reali”.

Perché il reato di tortura all’italiana non deve corrispondere al dettato del diritto internazionale? Basta leggere solo l’articolo 1 della “Convenzione contro la tortura” delle Nazioni Unite e si capisce perché. «Il termine “tortura” - è scritto nella Convenzione - indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o su una terza persona».

Confrontiamo questa norma di diritto internazionale con la realtà di uno Stato pluricondannato dalla Giustizia Europea per la condizione “strutturale” di tortura e di trattamenti disumani e degradanti nelle carceri e dove, abolita la pena di morte, vige ancora la morte per pena e la pena fino alla morte. Non solo perché la detenzione - in una cella di sicurezza o in carcere in attesa di giudizio - e l’esecuzione della pena può accadere che si risolvano in “esecuzione” tout court, ma anche perché in Italia vigono ancora il “fine pena mai” dell’ergastolo ostativo e il regime del 41 bis, ai quali puoi sottrarti solo tramite il “pentimento” o la collaborazione attiva con la giustizia, che per essere considerati autentici, devono essere “a rischio della vita”, propria e dei propri familiari.

Noi rivendichiamo tutto ciò come “certezza della pena” e “carcere duro”, ma secondo il diritto internazionale sono forme di tortura e trattamenti disumani e degradanti, perché - dice la Convenzione - sono “tortura” non solo il dolore o sofferenze forti, ma anche le pressioni fisiche o mentali che si esercitano nei confronti di una persona, «al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni».

* SEGRETARIO DI NESSUNO TOCCHI CAINO