Soluzione 40%. È la soglia che l’Italicum stabiliva per sancire il vincitore delle elezioni e che la Consulta ha lasciato lì. Per Renzi e Grillo è la lamina da sfondare per ghermire il trofeo della governabilità. Per altri, una stella che ha il medesimo appeal di Alpha Centauri: bellissima da vedere, impossibile da raggiungere.

Soluzione 40%. E’ la soglia che l’Italicum stabiliva per sancire il vincitore delle elezioni politiche cui assegnare l’alloro del premio di maggioranza. La Corte costituzionale l’ha lasciata lì, scalpo maggioritario piantato nel mezzo della landa proporzionalista, frutto del taglia e cuci della Consulta sulla riforma elettorale. Ora è diventata l’asticella che misura speranze, desideri e ambizioni dei leader politici italiani. Per alcuni, come Matteo Renzi e Beppe Grillo, è la lamina da sfondare per ghermire il trofeo della governabilità. Per altri, una stella che ha il medesimo appeal di Alpha Centauri nel firmamento: bellissima da vedere, impossibile da raggiungere.

Eppure, a dispetto dei propalatori di iperboli e/ o degli iper- realisti, si tratta dello spartiacque su cui si giocherà la prossima partita elettorale. L’ex comico capo dei Cinquestelle è sicuro di farcela o giù di lì; il leader del Pd ha puntato l’indice verso quell’obiettivo nella rentrée di Rimini, sperando di non finire come il saggio del proverbio: mentre lui indicava la luna lo stolto si dilettava a rimirare il dito.

La realtà è che per Renzi quel 40 per cento ha la stessa hybris delle slides di palazzo Chigi: servono a magnificare, non a discutere. Quella soglia per il leader Pd è tanto sostanziale quanto identitaria: l’ha contraddistinto nel suo esordio elettorale alle Europee diventando la tavola da surf dell’onda rottamatoria; è stata per quel motivo inserita nella riforma elettorale portata all’approvazione sulla punta delle baionette del voto di fiducia; e adesso che ha doppiato lo stretto della Consulta rimane l’ultimo miglio in vista della definitiva consacrazione del renzismo. Per raggiungerla, l’ex premier è disposto allo scontro finale: trasformare il non troppo riuscito frutto della fusione fredda tra ex Pci ed ex Dc nel PdR, il partito di Renzi, scolpito a immagine e somiglianza del leader. Chi continua a criticarlo chiedendogli analisi, revisioni o addirittura abiure no fa altro che sancire che di Renzi non ha capito nulla. Nel repertorio dell’ex sindaco di Firenze la retromarcia non è contemplata. A chi gli sta attorno non lascia alternative: o seguirlo senza fiatare oppure restare, ma per fare testimonianza. E’ il messaggio che Renzi ha inviato ancora una volta alla minoranza interna: se volete accodatevi, in ogni caso vado avanti comunque, dritto verso le urne di aprile- maggio. Per Renzi è l’azzardo finale, il testa o croce che segna il destino: se va bene, torna di gran carriera a palazzo Chigi; se va male resta alla guida del partito.

Il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, durante la presentazione del libro di Aldo Cazzullo 'Basta Piangere!' al teatro Argentina, Roma, 26 novembre 2013. ANSA/CLAUDIO PERI

Il punto è se davvero può andare bene. Se davvero il PdR riesce a sfondare il tetto del 40 per cento. Guardando i numeri, anche quelli referendari - scorporati delle ipoteche di autoassegnazione del plenum dei Sì - la distanza tra desideri e realtà sembra notevole: qualcuno direbbe siderale. Invece di galvanizzare la platea, l’indicazione del 40 per cento ha rinfocolato la guerriglia interna poiché è stata ( giustamente) vista come la conferma della marcia con gli scarponi chiodati verso le urne. Così ognuno ha guadagnato la postazione che ritiene meglio tuteli i suoi interessi. Il “riservista” D’Alema con lo sguardo già rivolto alla platea elettorale fuori dal Nazareno, alla scissione; il magistrato- governatore Emiliano pronto alla conta interna, anche delle carte bollate; gli altri aspiranti alla segreteria ( Enrico Rossi) e i bersanian- cuperliani eccetera eccetera risoluti a reclamare un congresso che, nove su dieci, non ci sarà. Può un leader che non si preoccupa di tener unito il suo partito aspirare a unire il 40 per cento dell’elettorato?

E poi bisogna far attenzione anche a ciò che non è Pd ma milita nella stessa maggioranza. In una intervista al Corriere della Sera, il ministro degli Esteri Angelino Alfano spiega che l’obiettivo deve essere quello di stabilire «un premio di governabilità alla coalizione prima classificata sotto il 40 per cento». Coalizione, non lista come dice ora la legge elettorale. Sotto e non sopra il 40 per cento. Se le parole hanno un senso, significa che per il partner più fedele di Renzi non solo il premio di seggi deve essere spostato dalla lista alla coalizione ma che anche in questo caso nessun aggregato supererà quel limite, e dunque il premio deve andare a chi si piazza meglio al di sotto di quel limite. Insomma altro che soluzione 40 per cento: piuttosto miraggio.

Senza contare l’altro, non trascurabile, problema insito nel ragionamento. Cioè che per l’intervento «in artroscopia» parlamentare ( sempre parole del titolare della Fernesina) volto a trasferire il premio dalla lista alla coalizione e a prevedere meccanismi per chi non supera la soglia occorre un provvedimento. Serve cioè un passaggio legislativo che, anche con le migliori intenzioni, rischia di allungare i tempi. E allora addio elezioni a giugno. In quel caso che fine farà Renzi? Ce la farà a rintuzzare le richieste di un congresso che si tramuterebbe in una perniciosa e per nulla scontata conta interna? Non è indicativo che anche il Guardasigilli Andrea Orlando, generale dei Giovani Turchi del Nazareno, sostenga l’opportunità di una legge per armonizzare i meccanismi elettorali di Camera e Senato? Ma poi, sempre per fare chiarezza, il fatuo tourbillon di date per le elezioni ha la consistenza della nebbia mattutina. A decidere sarà la uno solo, il capo dello Stato. Che quel che pensa riguardo accelerazioni poco ragionate l’ha già spiegato, chiaramente, nelle scorse settimane.

L’altra faccia del Giano bifronte del 40 per cento ha le sembianze di Beppe Grillo. Al fondatore del Movimento, le urne subito servono: molto per confermare la forza pentastellata che lucra il momento assai distruttivo, sotto qualunque latitudine, per i paladini dell’establishment; poco per mettere la sordina alle peripezie non esaltanti di Virginia Raggi. Come e meglio di chiunque altro, infatti, Grillo sa che la spinta anti- sistema continua a rafforzarsi e non c’è nulla all’orizzonte che faccia pensare a cambiamenti. E poi giugno, ottobre o febbraio 2018 non cambia: più passano i mesi più sembra che le altre forze politiche lavorino a maggior gloria dei Cinquestelle. Inconsapevolmente, si presume. Ma non per questo con meno efficacia.