«Si tratta di ritrovare un equilibrio e di non cedere alla logica che sdogana qualsiasi espressione sotto l’ombrello del diritto di critica». A Salvatore Sica, avvocato, ordinario di Diritto pubblico all’università di Salerno e giurista dell’informazione, non sfugge come il dibattito delle ultime settimane attorno alla libertà di espressione rimandi a qualcosa di più profondo: non solo ai limiti della professione giornalistica, ma anche alla dignità delle istituzioni, alla civiltà del dibattito pubblico, del confronto. Di sicuro, il confine critica- insulto è argomento tornato di moda: per gli epiteti hitleriani rifilati da Canfora a Meloni come per l’ipotesi avanzata e poi ritirata da FdI di reintrodurre il carcere per gli operatori dell’informazione.

Ma se il bersaglio è un politico o una persona comunque famosa, è tutto lecito?

Siamo a un nodo di cui la giurisprudenza si occupa da lungo tempo: la diversificazione delle tutele a seconda che la vittima sia una un privato o rivesta un ruolo pubblico. E il punto più controverso riguarda il diritto di critica: si tende a ritenere, anche da parte delle Corti superiori, che la critica sia sempre lecita. Ma se esiste la libertà di pensiero e di espressione sancita dalla Carta all’articolo 21, si dovrebbe comunque considerare l’intangibilità dei diritti della persona, cioè dell’articolo 2.

Vale per chiunque ma non per i politici?

Il fatto che un soggetto, se diventa personaggio pubblico, debba rassegnarsi a veder attenuata la tutela della propria privacy è abbastanza scontato. Ma se viene travolto ogni bilanciamento e, nei confronti del personaggio pubblico, qualsiasi affermazione diventa legittima, allora andiamo incontro a conseguenze gravissime.

Vale a dire?

Ne vediamo un chiaro riflesso nel linguaggio e nella violenza dei social, sui quali si assiste al trionfo del livore e alla mancanza della pur minima civiltà.

Nel momento in cui si stabilisce che insultare il politico è sempre legittimo, non rischia di innescarsi un circolo vizioso per cui chi ha una credibilità da tutelare tenderà sempre più a tenersi lontano dalla politica, per non vedersi marchiato da uno stigma sempre più negativo?...

È un’analisi senz’altro interessante, condivido pienamente l’idea di questa possibile deriva. Sì, di questo passo la politica finirà per attrarre solo chi non ha una storia o un’immagine da difendere. Chi viceversa ha una reputazione, ha dimostrato qualcosa nella vita, avrà sempre più una forte ritrosia a esporsi. Sia per sfuggire a una critica preconcetta e, appunto, senza limiti, sia per non confondersi in una categoria che la stessa azione della magistratura finisce per bollare come tutta corrotta a prescindere.

Alcune sentenze, anche della Cassazione, hanno contribuito a sdoganare in modo indefinito il diritto di critica al punto da legittimare espressioni che, rivolte a un privato, sarebbero certamente sanzionate come insulti?

In parte gliene facevo già cenno: la giurisprudenza ha progressivamente liberalizzato l’attitudine offensiva, ne ha spostato sempre più avanti la soglia di tolleranza. Ma questo giustificazionismo si traduce nell’idea che ormai tutto è consentito, in particolare se il bersaglio è un politico e se gli scambi avvengono sui social.

Una sorta di far west.

Serve un recupero della misura. Deve farlo la politica, con il rispetto degli avversari e delle loro idee. Sarebbe importante lo facessero le generazioni più giovani, che hanno del tutto smarrito la categoria della mitezza. Ma un ruolo importante tocca anche alla magistratura, che non deve subire l’ipoteca del politicamente corretto, compiacere una determinata matrice ideologica assimilata, per lungo tempo, al pensiero unico. Anche perché di qui a poco rischiamo di sentir proclamare che nelle università non c’è alternativa allo scontro fisico, perché possa pienamente realizzarsi la libera manifestazione de pensiero.

Dalla liberalizzazione degli insulti si può arrivare a un altro tipo di violenza?

Intanto io vedo dei rigurgiti di politica antagonista dissonanti rispetto al reale assetto del potere. Continuiamo ad accreditare una contrapposizione fra privato e pubblico che rischia di essere ormai del tutto fuorviante, giacché il potere si concentra sempre meno nello Stato e sempre più nelle mani di pochi privati. Le grandi forze economiche hanno minimizzato i margini della dinamica geopolitica. E credo sia evidente che questo è oggi il grande problema degli Stati.

Tutto questo non si può certo risolvere con il ritorno al carcere per i giornalisti.

La proposta del carcere per i giornalisti è la banale scorciatoia di quella parte della politica convinta che la soluzione di tutto sia nell’inasprimento delle sanzioni. Ovviamente non è così. Serve casomai ritrovare un principio di responsabilità: la società non può che sorreggersi sulla comune consapevolezza delle conseguenze derivanti da un comportamento sbagliato. Nel caso dei giornalisti, in particolare, anziché minacciare il carcere si dovrebbe ricordare che parliamo di professionisti vincolati a un sistema di regole tecniche e deontologiche, come gli avvocati o gli ingegneri, e che, quando le loro condotte non sono assistite dalla scriminante prevista all’articolo 21, anche i giornalisti devono rispondere delle conseguenze dannose delle loro condotte.

La replica è: così si soffoca il giornalismo d’inchiesta.

Ma un giornalismo d’inchiesta basato su un sana ricerca delle fonti, che sia espressione autentica di indipendenza, che non muova da un pregiudizio politico e rispetti i principi deontologici, anziché obbedire alle indicazioni del padrone di turno più o meno disinteressato, ebbene quel tipo di giornalismo sarà sempre al riparo dalle conseguenze delle proprie responsabilità. Ma se invece un giornalista pubblica illecitamente stralci di intercettazioni, enfatizza nei titoli aspetti che vanno ben oltre il contenuto dell’articolo, ricorre a una prosa infarcita di insinuazioni, con aggettivi e avverbi che non si sovrappongono ai fatti, e allora è assolutamente normale che risponda delle proprie condotte. Credo di dover avanzare una proposta che avevo formulato già qualche decennio fa riguardante le registrazioni delle testate.

Si riferisce alla figura del direttore?

Mi riferisco al fatto che per registrare una testata tuttora basta attribuirla a un nullatenente e nominare come direttore un pubblicista a propria volta privo di patrimonio. Da tempo sostengo che andrebbe introdotto un meccanismo di assicurazione obbligatoria. All’epoca mi fu obiettato che così la libertà di stampa sarebbe stata subordinata al possesso di determinate capacità economiche, ma io credo che non si possa più prescindere dalle necessarie garanzie per i cittadini. Non si può essere lasciati esposti a una stampa irresponsabile, capace di cambiare per sempre il destino di un singolo come di un’intera comunità.