Non è la prima e, ad azzardare dai toni, non sarà l’ultima. Rissa forse è il termine sbagliato, ma i decibel d’inchiostro sono quelli di uno scontro che vede contrapposte non solo due testate - il Fatto Quotidiano e Repubblica - e due giornalisti Marco Travaglio e Carlo Bonini ma due modi di fare giornalismo.

Il caso scatenante, in questo agosto tutto sommato ancora tranquillo, sono una serie di notizie di cui mancano i tasselli necessari a metterle in relazione, ma che avrebbero potuto gonfiarsi fino a diventare uno scandalo: la fabbrica di fake news di San Pietroburgo; il fatto che dei 3 milioni di tweet “troll” prodotti in Russia circa 18mila fossero in lingua italiana; il tweetstorm della notte del 27 maggio contro il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella dopo il veto sul nome di Savona al ministero dell’Economia, su cui la procura di Roma apre un’indagine.

Travaglio, nel suo editoriale di giovedì, contesta a Repubblica e ai «giornaloni» di fabbricare «complotti un tanto al chilo», perchè avrebbero messo in relazione il tweetbombing contro Mattarella ( attaccato dai sostenitori del governo gialloverde) con i troll russi, senza poi «chiedere scusa per tutte le balle raccontate» quando la Polizia Postale ha stabilito che non c’erano prove di un collegamento. La sintesi è la seguente: i giornali dell’establishment e l’establishment scalzato da Lega e 5 Stelle non sono in grado di giustificare la loro perdita di presa sull’elettorato e sui lettori, se non inventando «un complotto dei russi a suon di fake news». E poi ancora, Travaglio ironizza sul fatto che Repubblica, non paga del «boomerang» russo, scelga di pubblicare una serie di inchieste sul modo di utilizzare la rete da parte del Movimento 5 Stelle e dei suoi sostenitori. Anche in questo caso, le notizie non sarebbero di alcun interesse ma solo frutto di una teoria della cospirazione che è parte della campagna liberticida contro il web, condotta da Repubblica per ossequiare i poteri forti.

All’attacco, duro e limato con la retorica irridente che è il marchio di fabbrica di Travaglio, risponde altrettanto duramente Carlo Bonini, editorialista di Repubblica. Il pezzo, a scanso di equivoci, si intitola “Il metodo Travaglio” e già rimanda ad un altro scontro tra giornalisti diventato celebre. La locuzione, infatti, è stata coniata da Giuseppe D’Avanzo - il giornalista di Repubblica scomparso nel 2011 e autore di inchieste a quattro mani con Bonini - che con questa intendeva «una pratica giornalistica che, con “fatti” ambigui e dubbi, manipola cinicamente il lettore/ spettatore.

Ne alimenta la collera. Ne distorce la giustificatissima rabbia per la malapolitica. È un paradigma professionale che, sulla spinta di motivazioni esclusivamente commerciali ( non civiche, non professionali, non politiche), può distruggere chiunque abbia la sventura di essere scelto come target ( gli obiettivi vengono scelti con cura tra i più esposti, a destra come a sinistra)». Ecco, secondo Bonini, Travaglio «folgorato dai 5 Stelle della Casaleggio Associati» utilizza il solito metodo per attaccare Repubblica, mistificando i fatti e «mescolando titoli e ritagli di giornali diversi» in una «manipolazione necessaria al sabba di pernacchie» che trascura il merito di fatti ( le campagne condotte dai produttori di fake news) di stanno discutendo «l’intero Occidente e gli stessi giganti della rete».

Una querelle che nel merito risulta anche quasi scontata, nel suo essere figlia delle due diverse e opposte idee culturali ( e politiche) che animano le testate. Più interessante, invece, è ricordare l’origine di quel “metodo Travaglio” stigmatizzato da D’Avanzo, in quello che, dieci anni fa, fu a tutti gli effetti il più aspro scontro tra i due mostri sacri dell’inchiesta giudiziaria italiana e la dimostrazione in chiaroscuro di come esistano due grandi fazioni anche tra le fonti che a loro si riferiscono nei palazzi di Giustizia della Penisola.

In quel caso, l’origine dello scontro fu l’invettiva di Travaglio contro l’allora presidente del Senato, Renato Schifani, cui contestava «amicizie mafiose» per stigmatizzare la decadenza dell’attuale classe politica. È allora che D’Avanzo teorizza il “metodo Travaglio” e si esercita ad usarlo contro il suo inventore: cita, infatti, un’indagine della procura di Palermo farcita di intercettazioni, da cui risulta che Travaglio sia stato in vacanza in Sicilia con Giuseppe Ciuro, sottufficiale di Polizia Giudiziaria. A pagare l’albergo al giornalista sarebbe stato Michele Aiello, impresario della sanità siciliana, ed entrambi - sia Aiello che Ciuro - sono stati condannati per reati di mafia. Morale: «Anche Travaglio può essere travolto dal metodo Travaglio».

Seguirono settimane di botte e risposta: Travaglio smentì non le vacanze con Ciuro ma il fatto che gli fossero state regalate, pubblicando assegni ed estratti conto di carta di credito del 2002; D’Avanzo rispose che Travaglio ammetteva dunque di aver trascorso le ferie con il «“criminale” Giuseppe Ciuro» anche nel 2003 e che di quel soggiorno avrebbe dovuto trovare i cedolini.

Dopo un decennio i toni non sono cambiati e non sono cambiate nemmeno le fazioni, ognuna col suo “metodo”.