«Il parere della Sesta Commissione è acronico, senza tempo. In realtà bisogna storicizzarlo e avere ben presente perché si è arrivati a questo progetto di riforma. Ci si è arrivati perché dalla primavera del 2019 non si sentono altro che dichiarazioni sul voler cambiare, voltare pagina, recuperare la fiducia persa nella magistratura. Da qui nasce tutto. Io credo, da un punto di vista generale, che la riforma non raggiunga pienamente l’obiettivo; ma sono certo che questo parere non tiene conto di quanto è successo e si ostina a non voler – di fatto – cambiare alcunché». A dirlo, al Dubbio, è il consigliere laico del Csm Alessio Lanzi, critico sul parere espresso dai colleghi della Sesta Commissione sulla riforma del Csm, sul quale lunedì si esprimerà il plenum. Lanzi ha presentato sette emendamenti soppressivi, «proprio per cercare di segnalare e così di ricondurre, almeno in parte, il parere ad una prospettiva di riforma vera e non unicamente di facciata, se non addirittura gattopardesca».

Professore, perché definisce acronico questo parere?

Perché ignora tutto quello che è successo in questi tre anni. Siamo arrivati alla necessità di un progetto di riforma proprio per cambiare le cose, dopo aver constatato come funzionava il Csm. E il progetto, con tutti i suoi limiti, dati anche dalla necessità di tenere conto di tutte le componenti governative, cerca di cambiare qualche cosa. Invece la Commissione critica tutte le novità che si vogliono introdurre nella prospettiva di non cedere sugli elementi fondamentali su cui si fonda il potere della magistratura.

Secondo il parere, tale riforma aumenterebbe il controllo politico sulla magistratura, a scapito dell’indipendenza. È un rischio realistico?

Non è assolutamente vero. E mi voglio soffermare sulle aperture notevoli che il progetto dà sulla partecipazione e la consulenza di avvocati e Coa ai fini degli incarichi direttivi e semidirettivi e nelle valutazioni di professionalità dei magistrati, da fare nei consigli giudiziari territoriali, sul quale il parere è assolutamente negativo ed esprime sfiducia nei confronti dell’avvocatura. Ciò in contrasto con l’articolo 111 della Costituzione, che dopo 20 anni ancora non trova applicazione e che dice espressamente che accusa e difesa devono avere parità di diritti e facoltà davanti ad un giudice che sia terzo e indipendente. Invece abbiamo un pubblico ministero che ha la stessa carriera del giudice e che valuta il giudice, mentre gli avvocati non dovrebbero far niente. Il progetto allarga la loro funzione, ma la Commissione lo trova assurdo e contrario ad ogni regola.

La Commissione ha fatto un parallelismo con il Csm, dove i membri laici non possono esercitare la professione legale durante il mandato.

È un ragionamento che non sta né in cielo né in terra. C’è una grandissima differenza tra gli avvocati nei consigli giudiziari e gli avvocati nel Csm. I primi sono i rappresentanti dell’avvocatura territoriale e quindi devono avere gli stessi diritti che hanno i pm nei Consigli giudiziari. Perché anche loro continuano a fare il loro lavoro, eppure determinano la valutazione dei giudici. Gli avvocati e i professori al Csm, invece, non sono una rappresentanza territoriale, ma i rappresentanti della comunità civile, nominati dal Parlamento, rappresentando il contrappeso alla componente togata in un organo di rilievo costituzionale che altrimenti sarebbe composto di soli magistrati e sarebbe, dunque, un’altra Anm, autoreferenziale.

Una delle critiche principali è quella al sistema elettorale, che alimenterebbe il correntismo, le cui degenerazioni hanno dato luogo alle criticità degli ultimi anni. Su questo punto è d’accordo?

Nella misura in cui c’è un’elezione è chiaro che il tema delle correnti sarà sempre presente, per il semplice fatto che vinceranno e saranno eletti al Csm quelli che aderiscono culturalmente ad una corrente piuttosto che all’altra. Che sia proporzionale o maggioritario, nella misura in cui la base elettorale vota sulla scorta di simpatie ideologiche, è chiaro che si determinerà sempre la presenza delle correnti tramite i suoi rappresentanti. Se si vuole uscire dal correntismo, l’unico sistema utile è il sorteggio.

La Costituzione, però, prevede un’elezione.

La soluzione è semplicissima: il sorteggio temperato. La mia idea è che sarebbe meglio prima eleggere e poi sorteggiare tra gli eletti. Questo eliminerebbe la sicurezza di avere una corrente dominante. Ma soprattutto c’è un altro tema: al momento del conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi, il plenum dovrebbe votare le proposte della V Commissione con voto segreto. Perché quando si va a votare, tranne pochissimi casi, ogni corrente vota in maniera compatta. Ma è mai possibile che tutti abbiano sempre la stessa identica idea?

In ogni caso all’interno delle correnti c’è sempre una discussione: scoprire chi si è discostato dalla linea imposta dai vertici potrebbe non essere così complicato.

Questo è ineliminabile. Ma pensi quante volte il membro di una corrente, per una sorta di vincolo di mandato, sia costretto a votare ciò che la corrente propone. Col voto palese è difficile discostarsi dal diktat, col voto segreto, invece, è molto più facile. Con il sorteggio a monte e il voto segreto a valle, il correntismo si può, in parte, eliminare. Altrimenti ci sarà sempre. Ma bisogna uscire dall’ipocrisia: è chiaro che ci sono le attività culturali e che ci si aggreghi con chi ha opinioni simili alla propria. Ma il voto palese lega le mani a chi ha magari idee diverse su un candidato.

Un’altra questione è il rifiuto delle “pagelle” ai magistrati: il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia ha paventato il rischio di una “ansia competitiva”.

Quando si va a votare per un direttivo o un semidirettivo ci si basa unicamente sul curriculum e sui pareri dei consigli giudiziari, che tranne in rarissimi casi sono sempre elogiativi. Tutti i magistrati sono dei fenomeni, dunque. Ma non interessa mai come si sono esercitate le attività relative all’ufficio che si è ricoperto, in termini di risultati concreti di giurisdizione: la tenuta delle inchieste, dei sequestri e delle sentenze emesse. È evidente che non c’è una valutazione meritocratica. Ma se un chirurgo sbaglia tutte le operazioni può anche essere primario, ma non è un bravo chirurgo. Invece il magistrato, se anche sbaglia chiedendo ordini di cattura che non stanno né in cielo né in terra e procede con azioni penali che finiscono tutte con assoluzioni, è comunque ritenuto bravo, perché ha ricoperto questo o quell’ufficio. Questo il cittadino non riesce a capirlo. Sono perciò tutte critiche che mirano a non cambiare nulla. Alla base di tutto, poi, c’è il grande tema della separazione delle carriere o, allo stato, almeno separazione delle funzioni.

Il dottor Cascini ha definito la riforma un fucile puntato sui magistrati, in particolare rispetto ai rapporti tra stampa e magistratura e all’introduzione di nuovi illeciti disciplinari. C’è un rischio di censura della libertà di manifestazione del pensiero?

È un discorso assolutamente di parte. E lui, come parte, difende i pm senza considerare che c’è una risoluzione europea chiarissima, che noi abbiamo anche tardato a mettere in esecuzione, e che c’è una legge che a tutela della presunzione di innocenza non consente interviste. Se ci sono queste regole la parte può lamentarsene, ma francamente continua ad applicarsi la regola generale. È un discorso di tipo corporativo.

Cosa non va bene, secondo lei, in questa riforma?

Rispetto alla situazione attuale, la riforma è assolutamente positiva e accettabile. Com’era positiva e accettabile la riforma del processo penale, perché bisognava uscire dal pantano del fine processo mai. Il problema principale è che non ridurrà il problema delle correnti, perché bisogna incidere alla base, con il sorteggio. Ma almeno porrà fine alla situazione attuale.