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Giorgio Mulè, vicepresidente della Camera in quota Forza Italia, apre a modifiche sul premierato, spiega che «la riforma è migliorabile sulla norma antiribaltone, sui poteri del capo dello Stato e sul premio di maggioranza» e ammonisce: «se premierato deve essere, che lo sia fino in fondo», dice ipotizzando l’immediato ritorno al voto in caso di caduta del premier eletto dal popolo.
Vicepresidente Mulè, la riforma costituzionale è appena stata approvata dal Cdm ma già si parla di modifiche in sede parlamentare: il testo è blindato o se ne può discutere?
Innanzitutto occorre dire che il nocciolo della riforma risiede nel dare stabilità a una paese che, dal punto di vista della durata dei governi, è più instabile della faglia di San Francisco. Se questo è il principio sul quale ci troviamo, si tratta di procedere come per l’affinamento di un vino in barrique. Cioè occorre trovare la formula giusta per avere garanzie di equilibrio tra i vari poteri. È certamente responsabilità di questo Parlamento trovare una strada che sia il più convincente possibile per tutti, avendo un approccio libero e non pregiudizievole.
L’opposizione dice che gli incontri gestiti dalla maggioranza sono stati inutili e che il testo è uscito esattamente come era entrato: come è possibile dialogare su queste basi?
Se l’opposizione è in modalità costruens i passi avanti si fanno e si arriva a quei compromessi talvolta necessari, visto che la Costituzione prevede maggioranze solide per questo tipo di riforme. Se invece l’approccio è che la riforma non va bene e quindi non la votano senza nemmeno dare suggerimenti, allora non ha diritto di cittadinanza nemmeno la polemica, perché i pregiudizi sono nemici della riforma. Ribadisco che noi dialoghiamo con chiunque, soprattutto con l’opposizione, a patto che questa non butti via il bambino con l’acqua sporca ma lavori con spirito costituente per rendere migliore, se possibile, la riforma e in particolare la norma “antiribaltone”.
A proposito, ieri Marcello Pera sulle colonne di Repubblica ha criticato questa norma, e non solo, dicendo che «dovrebbe essere corretta». È d’accordo?
La riforma è migliorabile sulla norma antiribaltone, sui poteri del capo dello Stato e sul premio di maggioranza. E sono il primo dirlo, tant’è che anche io sto riflettendo su come eventualmente intervenire.
Partiamo dalla norma antiribaltone.
Dobbiamo pensare all’eventualità di elezioni immediate nel caso di dimissioni del capo del governo legittimamente eletto dal popolo. Se lo spirito della riforma è questo, è lo è, la garanzia risiede nel patto di lealtà che si stringe con gli elettori ed esso si fonda su una figura che deve guidare il paese. Il popolo non vota una controfigura o un panchinaro che sostituisce il titolare. Se proprio vogliamo lasciare la norma, allora bisogna trovare una formula per dire che non può esserci una maggioranza diversa rispetto a quella che ha vinto. E che quindi il secondo incarico si può dare di nuovo, e soltanto, al premier eletto. Altrimenti si torna al voto. A chi dice che così si uccide il parlamentarismo dico che la riforma si può anche lasciare così, ma allora non chiamiamola premierato. Se premierato deve essere, che lo sia fino in fondo.
Veniamo al premio di maggioranza: quali sono i problemi?
È semplice: non può esserci una forbice elevata tra il premio di maggioranza e una percentuale di consensi che magari è inferiore o prossima al 30%. È uno scenari su cui ragionare e correggere sia dal punto di vista della percentuale del premio sia da quello della percentuale di accesso al premio stesso.
Ha parlato poi dei poteri del capo dello Stato, che non nomina più il capo del governo: serve un passo indietro anche qui?
È un altro dei punti su cui bisogna laicamente saper discutere. Occorre dare a questa figura di garante la responsabilità di essere davvero il notaio di ciò che il popolo ha deciso. Ma ciò va accompagnato con un rafforzamento dei poteri nella formazione del governo e nello scioglimento delle Camere, passaggi nei quali il Colle va messo nelle condizioni di svolgere quel ruolo notarile, ma di fondamentale importanza, che deve avere.
Dario Parrini, del Pd, ha spiegato su queste colonne che se il capo dello Stato diventa un notaio non sarà più l’arbitro che è ora: le due figure possono coesistere?
Possono coesistere nella misura in cui l’arbitro non assume posizioni partigiane. L’arbitro è colui che sovrintende sulla base delle regole senza avere possibilità di forzarle. In passato queste regole sono state forzate durante diverse presidenze della Repubblica e ciò ha generato malumore e malessere verso un’istituzione, la Presidenza della Repubblica, che va invece rafforzata.
Ha parlato prima della necessità di un dialogo con l’opposizione: nella maggioranza invece come si conciliano le diverse posizioni in campo?
Trattandosi di modifiche alla Costituzione non possono esserci franchi tiratori o maggioranze create per un singolo emendamento, come avviene per le leggi. Non a caso la Carta prevede maggioranze rafforzate per mettere mano a essa. Questa maggioranza è aperta, apertissima, ad accogliere eventuali appoggi di altri partiti, ma guai se al suo interno non ci fosse la capacità di dialogare e confrontarsi. D’altronde, la Costituzione si cambia in uno spirito riformatore comune, non in una logica di partito. Esiste un fine comune, cioè premierato e governabilità, e questi principi vanno declinati nel migliore dei modi.
Fa bene la presidente del Consiglio a non legare il futuro del governo a questa riforma?
Paradossalmente, se legasse il referendum al destino del suo governo non lascerebbe quella libertà che invece va assicurata, trattandosi di una legge che determina il nostro futuro. Legarsi a doppio filo significherebbe condizionare gli avvenimenti, e quindi meno si legano i destini del governo a quelli della riforma e meglio è.