È possibile identificare dei fattori biologici e mentali alla base di comportamenti criminali? E se sì, che effetto avrebbe questa scoperta sulla imputabilità dell'individuo? Come riscrivere lo scopo della pena per un individuo ' determinato' alla violenza?

Ne parliamo con lo psichiatra di fama internazionale Pietro Pietrini, Direttore presso la Scuola IMT Alti Studi di Lucca. Il suo nome è legato al caso di Stefania Albertani, dichiarata colpevole, nel maggio 2011 con rito abbreviato, per omicidio e occultamento di cadavere della sorella, e per il doppio tentativo di uccisione di entrambi i genitori.

La pena comminata fu di venti anni di reclusione invece che l’ergastolo, essendo stato riconosciuto un vizio parziale di mente anche per la presenza di «alterazioni» in «un’area del cervello che ha la funzione» di regolare «le azioni aggressive» e, dal punto di vista genetico, di fattori «significativamente associati ad un maggior rischio di comportamento impulsivo, aggressivo e violento». La decisione fu supportata oltre che da accertamenti psichiatrici tradizionali, anche da analisi neuroscientifiche, che indagarono la morfologia del cervello e il patrimonio genetico dell’imputata. Si trattò di uno fra i primi casi al mondo della validità delle neuroscienze per l’accertamento dell’imputabilità.

Il caso fu trattato anche sulla prestigiosa rivista scientifica Nature. Oggi il professor Pietrini assiste Benno Neumair, ma di questo parleremo in un'altra occasione.

In base alla sua esperienza, quali conclusioni si possono trarre in merito al rapporto tra neuroscienze, responsabilità penale e imputabilità?

La valutazione dell'imputabilità è conditio sine qua non perché possa esserci un giusto processo. In termini giuridici stabilire l'imputabilità significa verificare se il soggetto era capace di intendere e volere al momento della commissione del reato. La capacità di intendere è quella di comprendere la natura delle azioni che si compiono e le loro conseguenze, mentre la capacità di volere è quella di controllo che l'individuo ha sulle proprie azioni. Secondo l'articolo 89 cp un individuo non è imputabile anche se una sola delle due capacità viene meno. Esiste anche la terza possibilità di una capacità di intendere o volere gravemente scemata ma non totalmente abolita. In questo caso l'individuo è imputabile ma ha diritto ad uno sconto di pena fino ad un terzo.

Fatta questa premessa, il ruolo delle neuroscienze è quello di cercare di dare il più possibile una base oggettiva, un correlato misurabile alle conclusioni che si raggiungono in termini di imputabilità. In sintesi: ridurre il margine di soggettività. Questo perché in psichiatria forense manca ancora, rispetto alle altre branche della medicina, la possibilità di avere un riscontro oggettivo. Non possiamo, ad oggi, misurare la capacità di intendere e di volere, il libero arbitrio o la capacità di autodeterminazione, come misuriamo la glicemia. Invece nel nostro campo, possiamo trovare pareri anche diametralmente diversi sullo stesso soggetto: quello del perito del giudice e quelli delle parti.

L'obiettivo delle neuroscienze diventa quello di integrare le tecniche ordinarie - il colloquio clinico, l’uso di test psicometrici, la raccolta di dati amnestici contribuendo al processo diagnostico e riducendo la variabilità soggettiva di giudizio dei singoli esperti. Oggi, ad esempio, grazie alle moderne tecniche neuroradiologiche, abbiamo la possibilità di misurare la densità neuronale in aree del cervello che sono cruciali per il controllo degli impulsi.

Una simile informazione cosa rileva o non rileva ai fini del giudizio di imputabilità?

Le neuroscienze portano un contributo complementare, integrativo. Nessuno di noi ha mai sostenuto che una persona non è imputabile semplicemente perché presenta una ridotta densità neuronale nella corteccia.

Noi diciamo che, a riprova di quello che clinicamente abbiamo riscontrato, nell'individuo vi è anche un correlato cerebrale o un rischio genetico che offre un quadro completo delle sue capacità. Nei casi di patologia conclamata, come ad esempio un tumore in una certa area del cervello, o una demenza frontale è certamente più facile stabilire l’esistenza di una relazione causale tra la patologia e il comportamento tenuto dal soggetto. Tuttavia, non sempre il giudice penale ritiene che la presenza della patologia abbia esercitato un ruolo causale rilevante sulla condotta criminosa. Non vi è nulla di deterministico. Tornando alla sua domanda: dipende dal tipo di lesione e dalla sua reversibilità e dalla possibilità di controllare, qualora non fosse rimovibile, gli effetti della lesione.

Però leggevo su DirittoPenaleeUomo, sempre a proposito di un suo intervento, del caso di un insegnante americano che a causa di un tumore ha iniziato a manifestare un comportamento inopportuno, estremamente disinibito nei confronti prima delle colleghe e, poi, anche dei suoi giovani allievi. Tolto il tumore, il paziente ha ripreso una vita normale e anche il suo comportamento è tornato quello di un tempo.

In ambito scientifico, questo si chiama “esperimento perfetto”, o test- retest. Come ho detto in quell'occasione, quando vogliamo dimostrare che tra A e B c’è un nesso di causa, si guarda innanzitutto se, in presenza di A, B compare; poi si toglie A e si vede se anche B viene meno; infine, si mette nuovamente A e si verifica se anche B ricompare. Il verificarsi di questa condizione consente di stabilire il rapporto eziologico tra i due fattori con certezza pressoché assoluta. Tuttavia, simili eventi non sempre hanno un impatto significativo in sede giuridica, probabilmente perché, semplicemente, non siamo ancora pronti ad accettare queste circostanze.

Professore Pietrini ogni caso va giudicato singolarmente?

Certamente. Premesso che ogni individuo è diverso, il nostro obiettivo è cercare di mettere insieme fattori diversi – genetici, di morfologia cerebrale, di funzionamento cerebrale, di abuso di sostanze, di deprivazione di sonno, ecc. – che concorrono a determinare la capacità di controllare il comportamento.

Quindi non si nasce già predisposti a compiere dei crimini? C'è sempre l'influenza del fattore ambientale?

Questa è una domanda importante. Nei secoli c'è stata sempre questa dicotomia tra natura e cultura, che gli studi moderni stanno dimostrando essere priva di senso. Dal punto di vista genetico, noi abbiamo tutti lo stesso genoma ma il motivo per cui siamo tutti diversi è perché sui 22mila geni insistono oltre 30 milioni di variazioni. Alcuni dei geni che controllano i neurotrasmettitori cerebrali hanno anch'essi varianti alleliche che rendono un individuo più o meno plastico, permeabile all'ambiente.

Voglio dire che gli effetti dell'ambiente possono avere conseguenze minori o maggiori su certi individui rispetto ad altri. Se il concetto è quello di geni di plasticità, ossia di favorire o meno una permeabilità alle condizioni ambientali, questo ci porta a concludere che genetica e ambiente non sono inscindibili. L'unico caso di determinismo è stata la famosa famiglia descritta da Brunner nel 1993: nei maschi di una famiglia olandese con una pesantissima storia di comportamento antisociale vi era un allele nullo per il gene MAOA. Poiché questo gene si trova sul cromosoma X che, come noto, è presente in singola copia nel maschio, coloro che avevano questa mutazione non producevano alcun enzima MAOA, ed erano estremamente aggressivi e violenti. Questa mutazione così grave è fortunatamente estremamente rara.

Data la complessità della materia, non dovrebbe esserci una riflessione più approfondita su come il nostro sistema carcerario debba affrontare casi in cui alla base del comportamento antisociale c'è un fattore biologico/ culturale?

In inglese si dice bad or mad, cattivi per scelta o perché malati, incapaci di fare altrimenti. Più andranno avanti gli studi delle neuroscienze e più la lancetta si sposterà da bad a mad. Nel ‘ 800 l’epilettico – e ancora oggi in alcuni paesi dell’Africa – veniva considerato un indemoniato. Poi la scienza ha dimostrato che l’epilessia è una banale malattia neurologica. Il concetto non è molto diverso per il comportamento socialmente deviante.

Ci sono criminali psicopatici che non provano quelle emozioni e sentimenti che sono alla base della vita sociale e del rispetto degli altri. Herbert Maudsley, famoso psichiatra inglese vissuto a fine 1800, scriveva che ' Così come ci sono persone che non possono distinguere certi colori, affette da quella che chiamiamo cecità per i colori, ed altre che non distinguono un tono musicale da un altro, essendo privi di orecchio per la musica, ce ne sono alcuni che sono congenitamente privi di qualsivoglia senso morale'.

Le neuroscienze oggi offrono la possibilità di una verifica oggettiva di queste osservazioni, anche se all'interno della comunità scientifica ci sono psichiatri forensi che escludono, a mio avviso erroneamente, la psicopatia come causa di imputabilità perché sostengono che in carcere sono quasi tutti psicopatici. Penso, invece, che il fatto che dietro a molte azioni criminali ci sia la psicopatia ci deve far riflettere: può non essere un attenuante ma esiste qualcosa che spinge a compiere gesti criminali, non avendo la capacità di apprezzare i valori morali, che non può essere considerata una variante di normalità.

È più facile segregare una persona per ' proteggere' la società dal diverso, come abbiamo fatto con gli appestati fino al 1600 e con i malati di mente fino a qualche decennio fa. Poi abbiamo capito che le persone si possono curare e riabilitare così da rendere possibile il loro reinserimento nella società.

Alla luce di tutto questo, come è possibile rieducare uno psicopatico?

Il discorso è complesso. Cerchi di educarlo, di inserirlo un contesto. Negli Stati Uniti stanno sperimentando per i giovani psicopatici, insensibili alla punizione, sistemi di gratificazione. Il tentativo è quello di far loro migliorare il comportamento dando loro dei premi. Questo procedimento sembra agire su meccanismi primordiali di gratificazione, gli stessi che già si ritrovano nei bambini piccoli, che prescindono dalla presenza o meno di un sistema di valori morali.