Elly Schlein ha ottenuto il suo obiettivo e fatto eleggere, per acclamazione, Francesco Boccia e Chiara Braga alla guida dei gruppi parlamentari di Senato e Camera. Nessuna conta interna e nessuna concessione alla minoranza di Stefano Bonaccini che ha dovuto accettare le decisioni, seppure tra mille malumori di Base Riformista. A questo punto si aspetta la trattativa per la segreteria, che dovrebbe prendere forma la prossima settimana, per capire se la minoranza deciderà di entrare nell’esecutivo e con quali deleghe. Oppure se si preferirà restare fuori per avere più margini di opposizione interna, come suggerito da Marianna Madia. Abbiamo fatto il punto sulla delicata fase che attraversano i dem con il professore emerito di Scienza Politica Gianfranco Pasquino.

Professore che idea si è fatto della giornata parlamentare conclusa con l’acclamazione di Boccia e Braga?

L’acclamazione è un meccanismo che non mi piace per niente e indica l’esistenza di qualche problema. Quando ci fu l’acclamazione di Bettino Craxi per la sua rielezione alla guida del Psi nel maggio del 1984, Norberto Bobbio scrisse un articolo dal titolo «la democrazia dell’applauso» e Craxi replicò dicendo che Bobbio aveva perso il senno. In realtà Bobbio sapeva benissimo di cosa stesse parlando e anche Craxi lo sapeva. L’acclamazione è triste e al tempo stesso insidiosa, perché vuol dire che i contrari non hanno il coraggio di votare no e esprimere le ragioni per le quali dissentono. Allo stesso tempo chi è stato eletto per acclamazione non sa quali siano le pretese della minoranza.

Adesso, però, la minoranza dem dovrà decidere se andare allo scontro con Schlein…

La minoranza intanto dimostra di non volersi contare. Avendo deciso di non votare non sappiamo neanche quando pesano, né lo sanno loro. Magari pesano anche meno di quando pensassero e magari come pare sia quello di Londra secondo il corrispondente di Repubblica Antonello Guerrera che s’è infiltrato a una prova generale, il significato più denso sull’epopea berlusconiana è già andato in scena.

Il senso politico dell’allestimento che Robert Carsen fece del Don Giovanni mozartiano per La Scala passò in secondo piano perché al momento della prima rappresentazione, il 7 dicembre 2011, Berlusconi si era dimesso da un mese, e non senza contorsioni. Quando le dimissioni divennero definitive, perché il Cavaliere le aveva infine date al Presidente della Repubblica, ma le aveva poi ritrattate a mezzo stampa il mattino dopo, una folla di italiani si era radunata - cosa assai insolita - sulla piazza del Quirinale. Non per protestare, ma per festeggiare - cosa assai insolita anche questa. E dunque alla Scala, quando si levò il sipario, si vide che «il dissoluto punito» (che è poi il titolo originale dell’opera) era vestito come chi stava in platea. Ma a dire «è di voi, signori, che qui si parla», c’era soprattutto il fondale di scena, che era poi uno specchio liquido che rifletteva, continuamente agitandola, l’immagine della platea, dell’intero teatro.

Di più: nel finale, il Commendatore che trascina nelle fiamme del giudizio divino Don Giovanni, non stava sul palcoscenico: vi arrivava scendendo dal Palco Reale, dove erano assisi il presidente della Repubblica e quello del Consiglio, Napolitano e Monti. Nel quadro finale, non previsto né da Lorenzo Da Ponte né da Mozart, pur bruciato nelle fiamme dell’inferno e condannato perché «questo è il fin di chi fa mal», che è poi la frase con cui si chiude l’opera, il Don Giovanni di Carsen ricompariva, fumandosi beffardamente una sigaretta.

Non sappiamo naturalmente se Berlusconi diverrà immortale alla pari di Don Giovanni, nemmeno come icona. Ma quell’allestimento della Scala preconizzava se non una fama duratura, quantomeno un eterno ritorno.

Nel 2011 nessuno avrebbe scommesso su una sua ricomparsa sulla scena politica. Adesso si rilancia come king maker di Meloni, fantomatica e sedicente futura “nuova Merkel” europea. Inseguendo chimere si corre sempre il rischio di dover fare i conti con la realtà. Ma intanto il nostrano dongiovanni della politica, a 86 anni, vuol tornare ad essere in scena. E da protagonista. Si accontenteranno di fare battaglie di piccolo respiro, qualche puntura di spillo e qualche guerriglia parlamentare, facendo mancare una manciata di voti che neanche serve.

Dice che non c’è più spazio per un’ipotesi di segreteria unitaria alla quale sembrano voler lavorare ancora Schlein e Bonaccini?

La segreteria non deve essere unitaria, ma deve essere il luogo delle decisioni e del comando. Certo può avere al suo interno dei rappresentanti delle minoranze, sempre che dicano chi sono e cosa vogliono. Se l’esecutivo dovesse essere composto da 14 elementi, è giusto che le minoranze abbiano quattro rappresentanti in maniera che si possano confrontare le diverse opinioni. Poi è la maggioranza che deve decidere e assumersi la responsabilità delle sue decisioni.

Dalle parole usate da Lorenzo Guerini dopo l’elezione dei capigruppo, però, emerge una visione diversa del partito e dell’Italia del futuro. Crede che possa verificarsi una scissione?

Guardi a me sembra che ci sia una visione chiara e precisa, condivisibile o meno che sia, ed è quella della segretaria Elly Schlein. L’altra visione non si riesce a capire, forse non la vede neanche la minoranza stessa che appare insicura di se stessa e delle proprie idee. Alla scissione non credo anche perché se Schlein non l’hanno vista arrivare, la minoranza dovrebbero vederla arrivare da qualche parte e non mi pare ci sia questa possibilità.

Di alleanze continua a non discutersi, anche se Boccia ha fatto qualche apertura al M5s…

Le alleanze dovrebbero nascere a livello locale tramite i rappresentanti territoriali di Pd, M5s e Terzo Polo. Il prossimo appuntamento elettorale di una certa importanza è rappresentato dalle elezioni europee che non richiedono alleanze. Certo senza il 15 per cento del M5s il Pd non andrà da nessuna parte e viceversa, ma lo sforzo dovrebbe essere quello di recuperare gli assenti e cioè all’interno del 40 per cento che ha deciso di non andare alle urne.

Senza alleanze però l’opposizione al governo Meloni non rischia di essere debole?

In realtà il governo Meloni sta dimostrando di essere già sfiatato ed è alla ricerca di capri espiatori per i ritardi accumulati nella spesa dei fondi del Pnrr. Hanno iniziato a dire che è colpa di Draghi, ma sapendo di vincere ben otto mesi prima avrebbero dovuto studiare meglio il dossier. Il governo ha già le sue contraddizioni interne e proprio sul Pnrr, fondamentale per il futuro del Paese, dimostrerà se è capace di andare avanti o meno.