«Quel 17 settembre nero della giustizia non finisce mai». Quel giorno di 31 anni fa il Tribunale di Napoli condannò Enzo Tortora in primo grado a dieci anni di carcere. È una data che fa parte di una tragica cronologia cabalistica ricostruita dal giornalista Vittorio Pezzuto nel suo Applausi e sputi, per diversi anni l'unico libro ad aver esplorato la mostruosa vicenda giudiziaria che travolse il presentatore.Pezzuto, perché l'ingiustizia di quel giorno non è mai finita?Dal '92 a oggi si sono contati altri 25mila casi Tortora: è il numero dei cittadini innocenti sbattuti in carcere, per i quali hanno pagato solo sette magistrati, quelli per i quali si sono chiuse azioni di responsabilità civile. Vicende come quella di Tortora si verificano ancora e nel frattempo si è ridotta di molto la cultura garantista.Davvero quel processo non ha cambiato nulla nella giustizia italiana?Se qualcosa è cambiato, rispetto all'idea di giustizia prevalente nel Paese, è cambiato in peggio. Davvero possiamo dire che la maggioranza degli italiani crede nella presunzione di non colpevolezza? Non scherziamo. Oggi l'opinione pubblica che finge di commuoversi per la vicenda Tortora considera sicuro colpevole chi ha ricevuto un avviso di garanzia. Ed è evidente come riflessi di questo atteggiamento si irradino anche sulle scelte normative.A cosa si riferisce?Al fatto che chi mormora 'ah, povero Tortora' spesso poi approva l'ipotesi di allungare i tempi della prescrizione. Senza rendersi conto che così facendo si condannerebbero decine di migliaia di imputati a una sorta di limbo giudiziario in cui dopo un eventuale condanna in primo grado devi aspettare anni prima di una sentenza definitiva.Probabilmente nemmeno all'epoca delle deliranti tesi accusatorie contro Tortora c'era il furore giustizialista di oggi.Tortora condannato in primo grado per associazione mafiosa e spaccio di droga oggi sarebbe massacrato sul web con decine di migliaia di insulti e con decine di articoli che istigherebbero a insultare ancora.Perché i pentiti scelsero Tortora?A dare l'innesco è una scintilla di follia. I primi due camorristi a fare il nome di Tortora sono Pasquale Barra e Giovanni Pandico, entrambi noti per gli impressionanti risultati delle perizie psichiatriche effettuate a loro carico. Il primo aveva addentato le viscere ancora calde del boss milanese Francis Turatello dopo averlo ucciso, il secondo aveva ammazzato tre impiegati del comune di Nola perché tardavano a rilasciargli un certificato. Entrambi fanno il nome di Tortora come affiliato alla Nuova camorra, ma collocandolo nelle retrovie.Da lì l'ordine di arresto.Quella è la parte della mostruosa vicenda che ancora può essere rubricata come clamoroso errore professionale e non, come è invece doveroso per le fasi successive, sotto la voce dolo e colpa grave. Il punto di svolta è nella cosiddetta prova, il numero telefonico di Tortora trovato nell'agendina di un camorrista ucciso, Salvatore Puca. Si scopre che era di un certo Enzo Tortona. È lì che Tortora commenta: non sono vittima di un errore giudiziario, sono un refuso.Sarebbe dovuta finire lì.Il presidente del Tribunale prova a non arrendersi all'evidenza. A questo Tortona, che è in Aula, dice: 'E dov'è la prova che il numero appartiene proprio a lei? '. E quello risponde: 'Facite 'o nummero... '. Gli inquirenti nemmeno avevano verificato con una semplice telefonata se davvero quell'utenza fosse di Tortora.Da lì si scivola nel dolo.Da lì inizia il il tiro a Tortora, agevolato da alcuni, diciamo così, accorgimenti. Diversi camorristi si rendono conto che chiamare in causa il presentatore significa essere trasferiti dal carcere alla caserma Pastrengo di Napoli, dove si può avere vitto migliore, donnine compiacenti, e la sera ci si può riunire per meglio concordare le dichiarazioni da rendere al processo.Che si chiude appunto con una sentenza di condanna pronunciata il 17 settembre 1985.La tesi accusatoria accolta dal Tribunale ha un carattere quantitativo: ci si richiama non alla consistenza delle accuse ma al numero di persone da cui le accuse provengono. Che è appunto elevatissimo. Quella data, quel numero non irrilevante nella smorfia napoletana, il 17, non risuonò solo alla condanna di primo grado.A cosa si riferisce?Il 17 è la data che ha segnato le tappe più importanti di quella che in Applausi e sputi definisco la seconda vita di Enzo Tortora. Il 17 giugno 1983 c'è l'arresto. Il 17 gennaio 1984 la concessione molto faticosa e a lungo ostacolata degli arresti domiciliari. Il 17 giugno 1984 l'elezione al Parlamento europeo con il Partito radicale. Il 17 luglio 1984 il deposito dell'ordinanza di rinvio a giudizio. Fino appunto alla condanna in primo grado, emessa alle ore 17 del 17 settembre 1985.Perché i giudici non si fermarono?Perché Tortora era diventato il simbolo del maxiblitz contro la Nco, e il sacco delle accuse che ogni volta veniva svuotato dai suoi avvocati doveva essere necessariamente riempito con nuove incredibili altre accuse. Se cadeva l'imputazione contro Tortora crollava tutta l'impalcatura processuale.E perché la sua posizione divenne così determinante?Nello stesso giorno in cui arrestarono Tortora finirono in manette 856 persone. Di queste, 117 finirono dentro per omonimia. L'impalcatura scricchiolava fin dall'inizio, tanto che alla fine dei tre gradi di giudizio gran parte degli imputati venne riconosciuta innocente. I magistrati si resero conto presto che l'unica era puntare tutto sul clamore assicurato dalle accuse a Tortora.Pensa ci sia chi crede in quelle accuse ancora oggi?No. Il caso Tortora serve oggi ad alcuni come pretesto per dire che quella vicenda è stata unica e irripetibile. E per negare così la verità: ovvero che continua a esserci strage di giustizia e ancora nuovi Enzo Tortora.