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Il governo italiano ha fornito alla Cedu le risposte sulla disciplina delle misure di prevenzione antimafia, spiegazioni richieste dai giudici di Strasburgo in seguito al ricorso proposto dalla famiglia Cavallotti ( come illustrato in altro servizio del giornale). Ne parliamo con Francesco Petrelli, presidente dell’Unione delle Camere penali italiane.
In merito al rischio che la norma violi la presunzione d’innocenza, lo Stato italiano sostiene che sia legittimo punire qualcuno per uno “status” e non per una responsabilità penale - risalente ad anni prima rispetto a quando la confisca è intervenuta. È un diritto extra- penale in cui non esiste, tra l’altro, il concetto di prescrizione?
Il governo italiano ha nuovamente affermato che al di là dell’assoluzione dal reato di partecipazione ad associazione mafiosa, residuerebbe una condotta riferibile alla cosiddetta appartenenza, qualificabile in termini di pericolosità idonea a legittimare la confisca del patrimonio nel caso di beni di dubbia provenienza. Si continua, in altri termini, a percorrere un terreno manifestamente estraneo ai requisiti di tipicità e determinatezza della fattispecie, laddove la cosiddetta appartenenza si sostanzia in una sorta di colpa d’autore, che dovrebbe essere ripudiata da un moderno ordinamento giuridico democratico.
Risulta evidente che la prevedibilità di ciò che è capace di integrare la pericolosità sociale incide negativamente anche sul principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, in quanto risulta amplissimo il margine di discrezionalità lasciato all’autorità di prevenzione. Con questo sistema il cittadino non può mai stare tranquillo, neanche dopo la morte: nulla a che vedere con il diritto e con lo Stato di diritto.
Lo Stato non si sforza più di tanto di spiegare come sia possibile confiscare beni ad un innocente. Che ne pensa?
In verità viene semplicemente ribadito il fumoso concetto di appartenenza che si collocherebbe tra la colpevolezza e l’innocenza, quale presupposto per l’applicazione della misura di prevenzione con confisca dell’intero patrimonio. I chiarimenti che la Cedu aveva richiesto al governo italiano sul caso Cavallotti sintetizzavano quella sostanziale contrarietà che, da sempre, le Camere penali esprimono nei confronti del procedimento di prevenzione, che ha del tutto abbandonato la propria vocazione di contrasto delle fonti di pericolo, rappresentando ormai un sistema punitivo fondato sulla repressione di stati soggettivi di pericolosità ricostruiti su base inquisitoria e svincolata dalle garanzie.
La reale natura penale della confisca, ove riconosciuta dalla Cedu, impedirebbe l’applicazione della misura della confisca in assenza dell’accertamento di un reato. Le questioni rimaste aperte nelle risposte del governo italiano, in linea generale, potrebbero essere superate dalla proposta di legge Pittalis che, in luogo della categoria degli indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’art. 416 bis c. p. prevede quella degli indiziati del reato di cui all’art. 416 bis c. p., con l’ulteriore precisazione che i predetti indizi dovranno essere gravi, precisi e concordanti. Scomparirebbe, così, la maschera della cosiddetta appartenenza.
Rispetto alla natura delle confische, lo Stato, nel caso dei Cavallotti, arriva incredibilmente a sostenere che una persona può essere annientata due volte: la prima quando paga il pizzo e la seconda quando i beni gli vengono confiscati perché paga il pizzo. Non le sembra una teoria giuridica ai limiti del sadismo?
La prevenzione si è oramai trasformata in un autonomo e spietato sistema punitivo che si è andato affiancando a quello penale, divenendo uno strumento repressivo e punitivo privilegiato proprio perché svincolato delle garanzie tipiche del sistema penale. Il sistema di prevenzione non è infatti bilanciato da alcuna garanzia, come ad esempio un autonomo procedimento di formazione della prova, per cui il sistema è del tutto sbilanciato sugli accenti inquisitori e di polizia. Accenti che hanno travolto anche le misure patrimoniali non destinate alla confisca, con effetti altrettanto devastanti sul circuito del mercato legale: in tal modo, abbandonando la logica recuperatoria che dovrebbe ispirare tali misure, si certifica molto spesso la morte aziendale dell’imprenditoria sana, che si trova esposta, da un lato, alle intemperanze della criminalità e, dall’altro, alla incapacità dello Stato di offrire concrete vie d’uscita e programmi di bonifica dall’inquinamento mafioso. Proprio quello che è accaduto nella vicenda Cavallotti: lo Stato persevera nel voler condannare un individuo dichiarato innocente che doveva invece essere protetto dalla pervicacia della criminalità organizzata.
C’è in questa legislatura un certo atteggiamento timoroso verso la magistratura antimafia, emerso quando è stato approvato un decreto per “rimediare” a una sentenza della Cassazione sulle intercettazioni, ma anche sull’ergastolo ostativo. Come giudica questa sudditanza?
La debolezza della politica è divenuta nel nostro Paese una caratteristica che segna l’intera storia della politica giudiziaria degli ultimi trent’anni, sempre più connotata dall’egemonia delle Procure, antimafia e non. Basti ricordare l’atto fondante di tale squilibrio: nel 1994, in piena tangentopoli, i pm del pool di Mani pulite affondarono un decreto del governo presentandosi a favore di telecamere e minacciando di dimettersi da quel ruolo. La condizione di subalternità della politica alla magistratura è un evidente vulnus per l’intero assetto istituzionale, perché nessuno ha il coraggio o si assume la responsabilità di quelle vere e radicali riforme delle quali la giustizia di questo Paese ha invece un urgente bisogno: dalla restituzione del processo al suo modello accusatorio, alla riforma dell’ordinamento giurisdizionale, che passano entrambi dalla fondamentale riforma della separazione delle carriere.
La sudditanza si coglie pure nella scelta di prevedere un taglio risibile dei magistrati fuori ruolo.
Qui si tocca un passaggio esemplare di questo scompenso fra i poteri. La limitazione del numero dei magistrati fuori ruolo operata dalla riforma dell’ordinamento è evidentemente risibile in quanto non incide che di 20 unità la somma delle presenze all’interno dei ministeri, che sono dieci volte tanto. Non a caso si tratta di una norma scritta da una Commissione di magistrati che non avrebbe potuto seriamente incidere sulla sua stessa rilevanza politica, perché il ruolo dei magistrati all’interno dei ministeri è inevitabilmente di natura politica: anche la tecnica in una norma che tocca il processo penale assume in ogni caso un formidabile contenuto politico.
Si rischia così di compromettere anche la riforma sulla separazione delle carriere?
La vedo diversamente. Mi sembra che la presenza dei fuori ruolo nel ministero e il ritardo nell’attuazione della riforma costituzionale della separazione delle carriere siano entrambe conseguenza di quella stessa situazione di profonda crisi sistemica che favorisce le legislazioni compulsive, da slot machine, di nuovi crimini e nuove pene, che stravolgono i principi cardine del diritto penale liberale, e stenta invece a porre in essere quelle riforme radicali di ampio respiro che sole potrebbero restituire legittimazione al giudice e credibilità alla giurisdizione.