Edmondo Bruti Liberati è stato un procuratore di Milano rigoroso, ed è tuttora considerato un punto di riferimento, in ambito associativo, da molti colleghi. «Tengo a ricordare di essere stato anche un magistrato di sorveglianza: in tale veste, nel 1975, ho avuto modo per la prima volta nella storia della Repubblica di applicare l’istituto del permesso: era stato introdotto con la riforma penitenziaria, si trattava del primo passo per la rottura della tradizionale immutabilità della pena inflitta. Ed è l’opposto della logica del “buttiamo la chiave della cella” e del “lasciamoli marcire in carcere”».

Appena lette le motivazioni della sentenza con cui la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la norma che indica la “collaborazione” come presupposto insuperabile per concedere permessi ai reclusi sottoposti al 4 bis, Bruti Liberati non esita ad auspicare che «i principi affermati dalla Consulta trovino applicazione anche per la liberazione condizionale per l’ergastolo». La pronuncia, in ogni caso, «è un segnale di civiltà che un ordinamento democratico lancia come sfida proprio alle organizzazioni mafiose, e chiude idealmente la presidenza Lattanzi, promotore del Viaggio nelle carceri».

Si può parlare anche di un “atto di coraggio”, considerata l’impopolarità che suscitano principi pure chiarissimi nella nostra Carta, a cominciare dal fine rieducativo della pena?

La sentenza della Corte costituzionale è importante per la decisione presa e per i principi affermati. Richiama i principi costituzionali sulla esecuzione della pena e lo spirito originario della riforma penitenziaria del 1975. Quella legge, abrogando il regolamento fascista, chiuse la stagione delle riforme della prima metà degli anni Settanta. Il Parlamento ebbe il coraggio di fare entrare in vigore la riforma nonostante il crescente allarme per la criminalità organizzata e il terrorismo.

Viene riproposta idealmente la stessa sfida lanciata allora dal legislatore nei confronti di quelle minacce?

Assolutamente sì. Ma è anche opportuno precisare il perimetro esatto della pronuncia di cui sono appena state depositate le motivazioni. Lo Corte, nonostante polemiche disinformate, non affronta la questione di fondo del cosiddetto ergastolo ostativo. Interviene soltanto, perché questa era la questione portata al suo esame, sulla disciplina dei permessi. La legge parla, con dizione fuorviante, di “permessi premio”: non si tratta per nulla di un premio per la buona condotta in detenzione, ma, di norma, del primo passaggio nel percorso di reinserimento del condannato nella società.

Ma è un’idea che suscita agitazione in una parte evidentemente maggioritaria dell’opinione pubblica.

Nel 1975, nominato magistrato di sorveglianza a Milano, ho avuto modo, per la prima volta nella storia della Repubblica, di applicare l’istituto dei permessi: il primo passo per la rottura della tradizionale immutabilità della pena inflitta, l’opposto della logica del “buttiamo la chiave della cella”. Grazie allo scrupolo dei magistrati di sorveglianza la percentuale di mancati rientri fu modestissima, ma l’istituto del permesso ha risentito delle emergenze: di quella relativa al terrorismo alla fine degli anni ’ 70, e poi dell’emergenza mafia. Così si spiegano gli andamenti oscillanti di chiusure e riaperture.

La sentenza riguarda solo i permessi, certo: ma i principi affermati prefigurano secondo lei un superamento complessivo dell’ostatività ex 4 bis anche per l’ergastolo?

La pronuncia della Corte riguarda solo i permessi ma i principi affermati sono di carattere generale. È prevedibile e auspicabile che tali principi trovino applicazione anche per le misure alternative della semilibertà e dell’affidamento e per la liberazione condizionale per l’ergastolo. Le presunzioni assolute e insuperabili, previste per alcuni gravi reati, di mancata rescissione dei legami con la criminalità organizzata a carico del condannato che non collabori con la giustizia sono incostituzionali, anche se la condanna è all’ergastolo. La Corte afferma che la “collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento”; aggiunge anche che “non è affatto irragionevole presumere che il condannato che non collabori mantenga vivi i contatti con l’organizzazione criminale”. Ma per rispettare i principi costituzionali occorre prevedere che “tale presunzione sia relativa e non già assoluta, e quindi possa essere vinta da una prova contraria”.

Parte della maggioranza di governo insiste nell’ipotizzare addirittura una legge che “limiti” l’applicabilità della sentenza.

Gli allarmi lanciati prima ancora di conoscere la motivazione della sentenza sono ingiustificati. Afferma la Corte che non basta certo la sola regolare condotta carceraria o la mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno una sola dichiarata dissociazione. Occorre acquisire “elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata”. Il sistema che ne emerge è netto nell’affermare i principi costituzionali e insieme attento alle esigenze di sicurezza. L’intervento di urgenza del legislatore, da taluni invocato, non ha spazi se non con la reintroduzione di rigidità incostituzionali.

La sentenza è anche un riconoscimento della funzione svolta dai giudici di sorveglianza?

Si può dire questo: una grande responsabilità viene assegnata alla magistratura di sorveglianza, ma non maggiore di quella che quotidianamente viene affrontata in tutti gli altri casi. Ancora una volta la Corte indica un percorso, sottolineando che alla magistratura di sorveglianza deve essere assicurato “un efficace collegamento con tutte le autorità competenti in materia”. È una assunzione di responsabilità che si richiede anche alle forze di polizia, che “devono acquisire stringenti informazioni in merito all’eventuale attualità di collegamenti con la criminalità organizzata” e non limitarsi a pigre formulette del genere “non si può peraltro escludere che…”. È un mutamento culturale che si richiede, appunto, anche alle forze di polizia. Il percorso di reinserimento dei condannati nella società, i dati statistici lo dimostrano, è un efficace, anche se ovviamente non risolutivo antidoto alla recidiva. Tutt’altro che buonismo, ma efficace politica per garantire maggiore sicurezza.

Quindi gli allarmi su un’improvvisa invasione di boss sono immotivati?

Non si tratta di “allentare la guardia” di fronte alle organizzazioni mafiose, casomai di ricordare che in carcere non ci sono organizzazioni ma persone. L’offrire una prospettiva di uscita, di rientro nella società, andrà incontro inevitabilmente anche a fallimenti, a errori di valutazione. Ma sull’altro piatto della bilancia è il segnale di civiltà che un ordinamento democratico lancia come sfida proprio alle organizzazioni mafiose, e forse potrà contribuire alla messa in crisi, silenziosa, di consolidate appartenenze. Terrei a un’ultima notazione, che non è un tecnicismo.

La prima eccezione di costituzionalità è stata sollevata dalla Cassazione: quella Corte per molto tempo attuò una sorda resistenza e talora uno scontro diretto con la Corte costituzionale in difesa della legislazione fascista. È un mutamento culturale ormai assestato che riafferma il prestigio della Corte che assicura il terzo e ultimo grado di giudizio. E la sentenza numero 253, estesa per la penna di una grande costituzionalista, chiude idealmente la presidenza di Giorgio Lattanzi, promotore del Viaggio nelle carceri.