Luciano Violante - nella sua intervista a Il Dubbio su quella che egli stesso ha efficacemente chiamato «un'invasione assolutamente ingiustificata del diritto penale nelle nostre vite», e sull'abitudine dei grillini, ma non solo loro, di «essere subalterni a un atto giudiziario», per cui reclamano dimissioni ad ogni annuncio di avviso di garanzia, o solo di iscrizione nel registro degli indagati - ha compiuto un altro passo importante sul felice percorso del suo ripensamento sui temi della giustizia. Un percorso che gli ha già procurato il sarcasmo dei soliti giustizialisti, che gli hanno dato del traditore, contribuendo anche a boicottarne a suo tempo, fuori e dentro il suo partito, il Pd, la candidatura a giudice della Corte Costituzionale. Dove invece meritava di essere eletto dal Parlamento per la sua competenza, e proprio per la capacità dimostrata di sapere guardare in faccia la realtà. Anche quando questa smentisce la fiducia riposta in qualcuno o qualcosa.Di tolleranza credo francamente che Violante ne avesse avuta troppa quando la magistratura non seppe resistere alla tentazione di riempire i vuoti che le lasciava una politica debole o addirittura imbelle, tutta presa dalle lotte fra i partiti o all'interno di essi e incapace di risolvere da sé i problemi che le poneva l'eterna lotta alla corruzione o, più in generale, alla illegalità. Una lotta eterna, perché i nostri ultimi anni o decenni non sono stati gli unici, e purtroppo non potranno neppure essere gli ultimi in cui si scontrano il bene e il male, il giusto e l'ingiusto. Violante ebbe tanta fiducia nella categoria dei magistrati, da cui d'altronde proveniva, da apparirne il punto di riferimento nella politica per le posizioni apicali che egli via via occupava sul piano istituzionale e politico: il capo - si disse addirittura - del "partito dei giudici". Accadde quando fu il presidente della commissione parlamentare d'inchiesta sulla mafia, o presidente della Commissione Affari Costituzionali di Montecitorio, o capogruppo o presidente della Camera. E quando la politica annaspava tra le sue già ricordate debolezze, molte delle quali purtroppo perduranti, le picconate - ricordate? - di un presidente della Repubblica come Francesco Cossiga e le forzature - sul versante opposto - di un successore come Oscar Luigi Scalfaro. Che in una crisi di governo, nel 1992, arrivò ad estendere la pratica delle consultazioni ad un capo in carica della Procura della Repubblica più esposta nelle indagini sul finanziamento illegale della politica e sulla corruzione che poteva averlo accompagnato e aggravato.Ora Violante sa ed ha il coraggio di denunciare, coi tempi che corrono, e i tanti mozzaorecchi e manettari in servizio permanente effettivo, che la misura è colma. E che occorrono interventi davvero correttivi. Fra i quali egli è tornato a proporre, di fronte al «meccanismo troppo cristallizzato delle correnti» delle toghe, quella che ha chiamato «una Corte unica e separata dal Consiglio Superiore della Magistratura»: un organismo davvero "terzo", che si occupi della «responsabilità disciplinare di tutti i magistrati», ordinari, amministrativi o contabili che siano. Sarebbe una riforma ben più vasta e incisiva di quella maturata per il regolamento interno del Csm.Ebbene, con l'esperienza di più di cinquant'anni di mestiere giornalistico, e con le occasioni capitatemi direttamente di avere a che fare col mondo delle Procure e, più in generale, della giustizia, chiedo a Violante se non sia il caso di proporre fra le competenze della sua provvidenziale "Corte Unica" anche le cause che purtroppo sempre più di frequente promuovono i magistrati contro chi scrive criticamente delle loro iniziative o sentenze. Cause che sono risolte da altri magistrati, sia pure di distretti giudiziari diversi. Dove ho sperimentato, per esempio, che può persino accadere che ad uno stesso magistrato capitino tutte le cause intentate contro decine di giornalisti di testate diverse da uno stesso attore giudiziario, e per le critiche alla stessa sentenza o iniziativa.Si tratta di cause prevalentemente civili per almeno due motivi. Il primo è perché con le cause penali bisogna dimostrare anche l'intenzione diffamatoria del giornalista che ha avuto la disavventura di non condividere e quindi di criticare un atto o una sentenza, mentre con le cause civili la buona o cattiva fede non c'entra. Il secondo motivo è perché le cause civili producono sentenze eseguibili già in primo grado, per cui il giornalista condannato deve pagare anche se fa ricorso.Ma prima ancora dei danni materiali procurati da simili procedure, per quanto legittime, conformi cioè alle disposizioni in vigore, i giornalisti subiscono in queste condizioni anche un altro tipo di inconvenienti. Subiscono, in particolare, la paura - letteralmente - di esercitare il loro diritto di critica per i guai ai quali possono andare incontro scrivendo o parlando.Il nostro è un Paese in cui può capitare a chiunque -com'è successo alla mia carissima amica Stefania Craxi- di dare dello «stronzo, anzi grandissimo stronzo» ad un politico, nella fattispecie all'allora sindaco o candidato sindaco a Roma Francesco Rutelli, potendo pagare una multa in comode rate mensili delle vecchie cinquantamila lire. Rate da lei usate per ribadire più o meno simpaticamente in ogni versamento, come motivazione, la qualifica di stronzo, grandissimo stronzo dato al denunciante per avere auspicato l'arresto di Craxi. E può invece capitare ad un giornalista di doversi vendere la casa per pagare, dopo una sentenza di primo grado in sede civile, i danni reclamati da un giudice, o una giudice, per le critiche ricevute condannando penalmente, sempre in primo grado, un imputato poi assolto in appello e in Cassazione.Non faccio nomi perché non è questione, appunto, di nomi. E' questione di competenze, sotto tutti i profili. E' un nodo, questo dei rapporti fra giustizia e giornalismo, che va risolto non meno urgentemente di quello fra giustizia e politica. Un nodo, quest'ultimo, che proprio Violante una volta disse spiritosamente, ma non troppo, che si poteva cominciare a sciogliere «separando le carriere dei magistrati e dei giornalisti», che ne raccontano il lavoro in modo tale da avvelenare il dibattito politico.