Quando un tema entra nella dimensione della politica, purtroppo smarrisce la sua qualità di interrogativo intellettuale per infilarsi nella logica degli schieramenti e delle polemiche. Il dibattito sulla prescrizione dei reati non fa eccezione.Langue da mesi senza sbocchi e la contesa si irrigidisce intorno ad enunciati che rifiutano di rendersi compatibili. Logomachie intorno a sei mesi in più o in meno, palleggiamento di responsabilità tra magistrati ritenuti scansafatiche e avvocati accusati di ostruzionismo.Un processo democratico?Non se ne esce se non si raddrizza il tiro: il che vuole dire, da un lato, avere piena consapevolezza degli effetti disastrosi che la prescrizione sta producendo; e dall'altro lato introdurre razionalità in una querelle fatta ormai di luoghi comuni non più sostenibili.Muoviamo dunque dagli effetti concreti dell'attuale disciplina. Essi non sono solamente la moria di centinaia di migliaia di processi che non giungono alla loro conclusione naturale, cioè all'accertamento di una innocenza o di una responsabilità penale. Questo è l'aspetto contabile del problema, uno dei tanti profili dell'inefficienza della giurisdizione. Ma sotto questo deficit si annidano ben quattro distorsioni allarmanti, delle quali occorre farsi carico. La prima attiene al solco sempre più intollerabile che divide gli imputati in grado di permettersi una difesa spregiudicata e costosa, e gli imputati che non possono o non vogliono farlo. I primi hanno un alto grado di probabilità di uscire indenni dal processo, gli altri no. Ora, la pena per i deboli e l'impunità per i forti è un vecchio e amaro connotato della giustizia, ma un processo che esalta le differenze sociali non è un processo democratico e va curato.La seconda distorsione concerne la qualità dei reati che finiscono in prescrizione. Poiché il tempo necessario a prescrivere cresce con il crescere della pena comminata in astratto, e poiché il codice penale del 1930 adottò un regime sanzionatorio piuttosto pesante, mentre la legislazione moderna cerca di rifuggire da livelli di pena eccessivi, ne discende che si sottraggono di più alla prescrizione i delitti considerati gravi secondo i valori di ottant'anni fa, mentre vi incappano più spesso i reati ai quali oggi si è più sensibili, come i reati ambientali, urbanistici, sanitari e simili, e soprattutto la corruzione e affini, che hanno avuto un trattamento particolare con la nota legge "ex Cirielli" del 2005. Anche questa non è cosa che ci può lasciare indifferenti.La terza disfunzione si produce a livello di lavoro giudiziario. I magistrati, soprattutto quando la notizia di reato arriva sul loro tavolo parecchio tempo dopo il fatto, lavorano sapendo che la loro attività sarà quasi certamente posta nel nulla, e tuttavia non possono esimersi da quel lavoro, perché lo esige l'obbligatorietà dell'azione penale. Così quelli che gestiscono i primi segmenti del processo spesso si rassegnano sin dall'inizio a lasciar dormire la pratica nell'armadio perché sanno che non faranno comunque in tempo, oppure si sentono esentati da responsabilità sol che riescano a trasmettere a valle il fascicolo in tempo utile, e poi avvenga quel che può; quelli poi che ricevono la pratica alle soglie della scadenza i sentono esentati da colpe perché non possono fare miracoli in tempi brevi, e il risultato è una quantità di lavoro inutile, che comunque inzeppa i ruoli di udienza e ritarda anche gli altri provvedimenti che potrebbero farcela.Chi si difende "DAL" processoLa quarta disfunzione è la più grave, perché segna un'autentica distorsione del costume giudiziario. Poiché la prescrizione si è via via trasformata da fatto eccezionale in un traguardo concretamente raggiungibile dalla difesa, quanto meno per i reati puniti con pena non molto elevata, essa è diventata un fattore intrinseco di inquinamento e di rallentamento del processo. Molte attività vengono richieste e compiute non perché siano davvero necessarie, ma perché allungano i tempi, ed i giudici non ritengono di rifiutarle perché temono che il loro eventuale "no" sia censurato nei gradi successivi del giudizio, in quanto lesivo di un diritto della difesa. In questo modo il decorso del tempo ha perso il suo carattere neutrale per trasformasi in un'arma di difesa non nel processo, ma dal processo. La parità delle armi, cardine del rito accusatorio, viene alterata dal rilievo che la consumazione del tempo, utile alla parte che beneficerà della prescrizione, è affidata in larga misura proprio a quella parte, senza che né la controparte né il giudice possano contrastarla validamente.Come combattere questi fenomeni in modo rispettoso sia dei diritti del cittadino, sia della funzionalità del processo? Un'indicazione è stata offerta proprio da una legge costituzionale del 1999, nota come la riforma del giusto processo, là dove ha inserito nell'articolo 111 della Costituzione il principio per cui "la legge assicura la ragionevole durata del processo".Ciò significa da un lato che l'accertamento dei reati deve avvenire in termini che non espongano il cittadino ad una soggezione processuale per un tempo non ragionevole, e dall'altro lato che questo accertamento deve essere concretamente praticabile. Tradotto: i processi non possono essere eterni, e, a rovescio, l'istituzione non deve essere penalizzata nei suoi obiettivi quando è incolpevole.Ora, stabilire che cosa è ragionevole è cosa difficile. Ma possiamo accordarci passabilmente su che cosa non è ragionevole. Una prima situazione non ragionevole si verifica quando la giurisdizione viene sollecitata ad attivarsi per l'accertamento di un reato molto tempo dopo che lo stesso è stato commesso e, con la disciplina vigente, dispone solo più di un tempo molto esiguo per portarlo a compimento. È evidente che nessun impegno, nessuno zelo, nessuna acrobazia riuscirebbe mai a percorrere i tre gradi del processo nel poco tempo che rimane. E quand'è che, in prevalenza, questo accade? Anche qui il confronto statistico è eloquente, perché i cosiddetti reati di strada pervengono quasi subito alla conoscenza degli organi preposti alla loro repressione, e quindi nel pre-processo si consuma solo una minima parte del tempo atto a prescrivere; mentre i cosiddetti reati di scrivania stanno a lungo acquattati nell'oscurità fino a che un qualche accidente li fa venire alla luce, ma allora la corsa contro il tempo ha ormai pochissime chances.Quando far partire il cronometroPertanto il primo intervento dovrebbe consistere nello spezzare l'unitarietà del tempo necessario a prescrivere, che oggi ingloba illogicamente sia il prima del processo, del quale la giurisdizione non ha alcuna responsabilità, sia il cammino del processo, del quale invece la magistratura deve rispondere. Allora, se la notizia di reato perverrà entro il tempo definito (ad esempio, cinque o dieci anni, o altro: sarà la sensibilità comune ad individuare quand'è che matura il tempo dell'oblio) tutto il prima non sarà conteggiato; mentre se la notizia perviene quando questa arcata temporale è decorsa, il processo non dovrà nemmeno partire, anche se, rispetto ai termini odierni, residuerebbe qualche scampolo, ormai inutile.Il secondo punto nodale riguarda i tempi ragionevoli del processo. Quando la notitia criminis perviene entro i termini di cui si è detto ora, occorre provvedere a che il cittadino sia preservato da una durata indefinita della sua soggezione processuale.La durata del processo non è una variabile indipendente, ma soggiace ad un obbligo di rispetto del cittadino, e quindi devono essere compiuti tutti gli sforzi organizzativi necessari perché questo diritto sia tutelato. Poiché il processo, per sua natura, è articolato in fasi e gradi, ciascuno di essi dovrà giungere a conclusione entro un termine che sarà ancora la politica a definire, ma che dovrà tenere conto delle due esigenze contrapposte delle quali si è fatto cenno. Se il processo non riuscirà ad ultimare ciascuno dei suoi segmenti, e ovviamente l'intero percorso, entro i termini fissati, esso si estinguerà e libererà il cittadino che vi è soggetto.Ma, a rovescio, il principio di razionalità impone che l'istituzione non sia penalizzata per fatti di cui non è responsabile: se è la parte interessata a conseguire la prescrizione quella che fa girare le lancette dell'orologio al di là delle esigenze processuali ritenute congrue da chi il processo deve condurre secondo legge, ebbene in tale situazione si deve addivenire al fermo dell'orologio.Non esiste un diritto alla prescrizione in sé e per sé, ma solo come reazione ad una soggezione non ragionevole, alla quale non si contribuisce in proprio. Dunque la prescrizione non ha motivo di decorrere quando l'impiego di una quota di tempo è dovuto a richieste specifiche del cittadino-imputato. I diritti della difesa devono essere pienamente salvaguardati, ma non è corretto che essi giovino ad ottenere un risultato ulteriore rispetto a quello dichiarato (in concreto, se la difesa chiede l'assunzione di prove aggiuntive rispetto a quelle che il giudice ha ritenuto necessarie, o domanda un rinvio per motivi suoi, si dovranno accogliere le sue richieste, ma non acconsentire a che esse producano un beneficio ulteriore ed estraneo all'oggetto della richiesta stessa).Se si ha consapevolezza degli effetti negativi che la prescrizione produce, e se si accolgono queste linee-guida, è possibile pervenire ad un'architettura accettabile che rimuova dalla discussione quei temi che la inceppano (l'eliminazione della prescrizione dopo il primo grado, o la sua dilatazione indiscriminata) e le impediscono di conseguire un approdo sempre più indispensabile.