Mi ha fatto una certa impressione la parola ' strappo' usata da Beppe Grillo proprio nel trentacinquesimo anniversario della morte di Enrico Berlinguer. Che l'aveva resa celebre in una tribuna politica televisiva del dicembre 1981, quando ad una mia domanda sulla legge marziale appena introdotta in Polonia dal generale Jaruzesky per prevenire il solito intervento armato dell'Unione Sovietica il leader delle Botteghe Oscure dichiarò l'esaurimento della «spinta propulsiva della rivoluzione» comunista dell'ottobre 1917.

Armando Cossutta nel Pci non perdonò al pur popolare segretario del partito tanta eresia e corse a Perugia a organizzare un'assemblea di dissidenti, destinati però a non essere radiati, com'era accaduto invece nel 1969 a quelli del manifesto, insorti contro l'occupazione sovietica della Cecoslovacchia del povero Alexander Dubcek.

Lo ' strappo', testuale, rivendicato più o meno orgogliosamente da Grillo in un articolo sul Fatto Quotidiano - e dove, sennò?- è quello del Movimento 5 Stelle dalle sue origini compiuto più di un anno fa accordandosi con la Lega di Matteo Salvini per il governo gialloverde del ' cambiamento'. Che il 26 maggio scorso è costato nelle urne europee ai grillini, e più direttamente a Luigi Di Maio, che ne è il capo rapidamente confermato al suo posto col solito referendum digitale, 15 dei 32 punti percentuali di voti conquistati il 4 marzo 2018 nel rinnovo delle Camere.

Di questa batosta, e di tutto quello che ne hanno scritto gli avversari, dando il movimento delle cinque stelle ormai perduto nella stratosfera, o quanto meno assai compromesso, Grillo si è consolato scrivendo più o meno ironicamente che «siamo abituati a trovarci costantemente dalla parte sbagliata di questa nazione», al minuscolo per quella che evidentemente vale e merita dopo tanta ingratitudine. I critici non si rendono conto della «velocità incredibile» della crescita dei pentastellati e della quantità dei «nidi di mitragliatrici mediatiche» allestiti da «vecchi parrucconi e starlette».

Così sono stati serviti anche coloro che si ostinano, per esempio, a scambiare per «piramidi» utili a far lavorare tanta gente opere invece dannose come la linea ferroviaria d'alta velocità per le merci da Lione a Torino: la o il Tav. Cui il comico genovese preferisce piuttosto il ponte sullo stretto di Messina, anche a costo di trovarsi nella scomoda compagnia dello «psiconano», come lui chiama Silvio Berlusconi una volta tanto dissentendo o distinguendosi da Marco Travaglio, che è fermo come un paracarro alla definizione di «pregiudicato», con tanto di pezze d'appoggio ricavate dagli archivi della Corte di Cassazione.

A chi ha sprovvedutamente scambiato lo ' strappo' dell'alleanza con Salvini per qualcosa cui rimediare, compreso quindi lo stesso Travaglio, affrettatosi dopo il 26 maggio a chiedere ai grillini di fare come i leghisti di Umberto Bossi alla fine del 1994 con Berlusconi, quando ne rovesciarono il primo governo e minacciarono di espulsione un Roberto Maroni tenta- to di restare al Viminale, Grillo ha improvvisato una lezione di realismo e, insieme, di fideismo. «Non siamo - ha scritto da capo del cantiere e da filosofo di lunghe vedute, diciamo così- una di quelle aziende», di cui sono piene le pagine gialle, «che vi ristrutturano il cesso in quattro ore».

Vi raccomando quel «cesso», in cui Grillo è convinto di avere portato a lavorare la sua manovalanza, si spera con tutte le cautele del caso, a cominciare dalle maschere: quelle vere, della salute, non da teatro. Dove pure ha fatto le sue fortune il fondatore, garante e quant'altro del partito ancora maggiormente rappresentato a Montecitorio e a Palazzo Madama, anche se gli elettori del 26 maggio lo hanno fatto scendere nella graduatoria al terzo posto, neppure al secondo, dopo l'odiato Pd nazarenico di Nicola Zingaretti.

Quanto possa o debba durare, magari in termini di anni luce, la «ristrutturazione» grillina o gialloverde del «cesso» italiano, magistratura permettendo naturalmente, vista l'abituale e casuale per carità- commistione di cronache politiche e giudiziarie, il pazientissimo Beppe prima o poi forse lo dirà, anche a Di Maio e allo smanioso Alessandro Di Battista, Dibba per gli amici. Che ha appena accusato i leghisti, con la franchezza o la severità di un vigilante notturno in motorino, di ' rubare' a Forza Italia non solo i voti, ma anche gli uomini di una certa area simil- criminale alla quale andrebbero iscritti d'ufficio l'ex parlamentare forzista, appunto, Paolo Arata e il figlio Francesco, appena arrestati per l'affare che è già costato il posto all'ex sottosegretario leghista Armando Siri.

Meno male che, almeno sinora, non sia sta chiesta l'auto- sospensione, come di un qualsiasi consigliere superiore della magistratura, dell'altro figlio di Arata, Federico, dal Dipartimento economico di Palazzo Chigi. Di cui il giovane è consulente a contratto, apprezzato da Salvini in persona, oltre che dal sottosegretario Giancarlo Giorgetti.