«Io non ho nulla, ma veramente nulla, di cui scusarmi. Ho fatto tutto quello che in questi casi andava fatto». A dirlo è Andrea Mirenda, il magistrato del tribunale di sorveglianza di Verona a cui era affidata Donatella Hodo, la ventiseienne di origine albanese suicidatasi nel carcere di Montorio questa settimana inalando il gas di una bomboletta. La triste fine di Donatella è balzata agli onori delle cronache non per il fatto in sé, in quanto - purtroppo - i suicidi dei detenuti continuano a essere all’ordine del giorno, ma per una lettera di scuse da parte dell’attuale facente funzione dell’ufficio di sorveglianza di Verona, il giudice Vincenzo Semeraro. Nella lettera, letta durante i funerali della giovane ragazza, il dottor Semeraro si era scusato pubblicamente per quanto accaduto, affermando che avrebbe "potuto fare di più per Donatella, non so cosa, ma so che avrei potuto". Parole che, ovviamente, avevano avuto una coda polemica, facendo finire sul banco degli imputati tutto il personale penitenziario e il sistema di sorveglianza nel suo complesso. In alcune interviste all’indomani della tragedia, il padre e il fidanzato avevano poi dichiarato che Donatella era stata “lasciata sola” in carcere, annunciando quindi di voler denunciare gli eventuali responsabili.

Dottor Mirenda, si sente responsabile di questa morte? C’era qualcosa che si sarebbe potuto fare e non è stato fatto?

Guardi, quando qualcuno in carcere decide di togliersi la vita è sempre un dramma che scuote le nostre coscienze. Ci sarebbe bisogno da parte di tutti di rispetto, di silenzio, e soprattutto di evitare strumentalizzazioni di alcun tipo. Fatta questa premessa, che ritengo doverosa, nel caso di Donatella è stato fatto tutto quanto era possibile. Donatella aveva un passato molto complicato, dall’età di 21 anni entrava ed usciva dal carcere in particolare per reati legati agli stupefacenti e contro il patrimonio. Sì. La ragazza stava scontando una condanna definitiva presso una comunità di recupero per soggetti con questo genere di problemi. Il 22 maggio scorso, però, aveva deciso autonomamente di lasciare la comunità ed era tornata in carcere.

Cosa è successo allora?

Appena ritornata in carcere, il direttore, conoscendo bene i suoi problemi, l’aveva subito ammessa al lavoro interno, la produzione di marmellate e prodotti simili. Ed è un fatto molto raro.

Perché?

Come sanno tutti coloro che si occupano di esecuzione della pena, è molto difficile che a colui il quale è stata revocata una misura alternativa alla detenzione venga poi concesso di poter subito lavorare in carcere. Una concessione che, invece, era stata fatta dal direttore proprio per la sensibilità che aveva nei confronti di Donatella e dei suoi problemi personali.

Non è stata mai lasciata sola?

Assolutamente no. E gli è stato subito consentito di avere dei colloqui con il suo fidanzato.

E con il difensore?

Io ho avuto rapporti costanti con l’avvocato Simone Bergamini. E lo dico senza tema di smentita. Nonostante quello che era successo, l’abbandono della comunità da parte di Donatella, stavamo lavorando per un nuovo affidamento terapeutico, da porre in essere appena superati i limiti previsti dall’articolo 58 quater dell’ordinamento penitenziario. Sinceramente non so proprio cosa altro bisognasse fare.

La lettera del suo collega ha fatto discutere.

Io ritengo che si sia trattato di un lettera dal valore sentimentale e affettuoso che però non può assolutamente mettere in discussione la qualità professionale e umana del trattamento che è stato assicurato a Donatella in questi mesi.

Si sente amareggiato? Non si aspettava tutte queste polemiche?

Un po’ sono amareggiato, certo. Però vorrei farmi portavoce di tutti coloro che lavorano ogni giorno, e fra mille difficoltà, in carcere: dal direttore fino agli agenti della polizia penitenziaria, chiamati “guardie” in maniera sprezzante dal fidanzato di Donatella. Ecco, ci vorrebbe un po’ più di rispetto, evitando di lasciarsi andare a facili polemiche senza neppure conoscere i fatti realmente accaduti.