L’EDITORIALE

Quanti bambini sono caduti nel dramma dell’emigrazione?

Quanti ne cadranno ancora? E quando riusciremo a capire che ci troviamo di fronte a un gigantesco problema che non ha nulla di ideologico ma che è la più grande questione umanitaria di questo secolo, e che riguarda il destino della nostra civiltà e non le relazioni politiche tra i partiti?

Non sappiamo neppure come si chiama quest’ultima piccola vittima, quattro anni, annegata nel mare Egeo sotto gli occhi dei genitori che non sono riusciti a salvarla.

Sappiamo che stava su un gommone, che si dirigeva verso la Grecia, che sperava in una vita migliore. Il padre accusa la marina greca. Dice che la motovedetta, quando li ha avvistati, mentre il gommone imbarcava acqua, e le onde erano di due metri, invece di portarli in salvo li ha trascinati al largo. Ha fatto quella che si chiama opera di respingimento. E ha detto che la bambina in questo frangente è caduta in mare ed è affogata.

Bisognerà accertare se è vero che le cose sono andate così. Perché se fosse vero sarebbe una cosa gravissima. Purtroppo, per come si sta comportando l’Europa nei confronti dei profughi, non si può escludere che sia vero. E’ iniziata questa gara folle al respingimento che unisce tutti i governi, sembra. Quelli di destra e quelli di sinistra, gli italiani e i greci. Non c’è nulla di ideologico nella corsa al respingimento, c’è un vento che spinge tutti verso una nuova moralità - lontanissima da quella illuminista o cristiana che hanno reso grande il nostro continente - e che sembra un po’ la moralità del cinismo, del disinteresse per lo straniero, per il debole, persino per i bambini. Le agenzie internazionali ci dicono che in Siria, nei giorni scorsi, 15 bambini sono morti di freddo. Sì: di freddo. Più della metà aveva meno di un anno. Lattanti. Cercate un po’ sui nostri giornali, o sui social, vedete se riuscite a trovare due righe, magari anche piccole piccole, per raccontare questi episodi...

Tre anni fa l’immagine di quel cadaverino raccolto dai soccorritori su una spiaggia greca, proprio vicina al luogo della tragedia di ieri, commosse tutto il mondo. Si chiamava Aylan, era un maschietto di tre anni. La commozione impose una svolta politica, che fu guidata, coraggiosamente, dal governo conservatore tedesco. Era parso a tutti che si stesse per aprire un'epoca nuova, l’epoca dell’accoglienza, della comprensione. Durò lo spazio di un’estate, poi la spinta si affievolì, scomparve. Ore la tendenza si è invertita.

Tre anni fa la fotografia di Aylan campeggiò su tutti i giornali del mondo, e su tutti i giornali italiani e in Tv, e sul web. Ora del piccolo iracheno morto affogato non importa un bel niente a nessuno. I giornalisti si occupano d’altro. Il problema dell’immigrazione è visto soltanto come questione interna alle politiche degli Stati. Come occasione per spostare voti.

Ma quanto può durare questo schema cinico? Davvero le classi dirigenti europee immaginano di poter giocare a scacchi con uno dei più grandi problemi del nostro tempo, e cioè quello di rapporti tra il Nord e il Sud del mondo, tra ricchezza e povertà, tra pace e guerra? Immaginano che la Storia sia una signora che sta lì a guardare e poi conteggia, pesa e racconta le partite a tavolino dei politici? Non è così: la storia presenta il conto alle classi dirigenti. Sempre. Affrontare o no il problema dell'accoglienza e porre fine all'olocausto che ormai da almeno 10 anni è in corso nel Mediterraneo, è necessario a tutti: alla destra e alla sinistra. O chi governa - l’Italia, la Grecia, l’Europa - capisce che non ci stiamo giocando un pugno di voti ma il destino del nostro continente, o sarà un disastro per tutti. Né un grande paese e tantomeno l’Europa possono essere guidati in assenza di una classe dirigente. E nessuna classe dirigente può nascere se non affronta la questione dell'immigrazione in termini storici, e non come una operazione di polizia.

P. S. Probabilmente ieri la lezione di civiltà ci è venuta dalla Turchia. Che è intervenuta per salvare le vite messe a repentaglio dalla marina greca. Era difficile aspettarselo.