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Per quanto legatovi da ricordi di famiglia e di studio, ho smesso di andare a Napoli da una ventina d’anni: in particolare da quando, incollonato in auto a un semaforo sulla strada che costeggia il porto, fui rapinato di un orologio in pieno giorno.
Un ragazzo all’incirca dell’età di quello che è stato ucciso in questi giorni da un carabiniere in borghese non ebbe bisogno di puntarmi un’arma, né vera né finta. S’infilò col busto nel mio finestrino dove avevo appena ritirato il braccio sinistro dopo avere spazientemente raddrizzato lo specchietto laterale che mi era stato spostato per la seconda volta lungo la stessa strada, sempre incolonnato nel traffico di punta. E ingaggiò una lotta selvaggia con le mani di mia moglie che, sedutami accanto, cercava di impedirgli, graffiandone il viso, di sfilarmi l’orologio dal polso, senza il timore di vedersi sfilare pure il suo.
La scena si svolse sotto gli sguardi indifferenti dei conducenti delle altre auto, tutti fermi al semaforo, di lato e di dietro. E si concluse a tutto vantaggio del rapinatore, ladro, o come diavolo andava chiamato in gergo penale. Che mi lasciò sulla portiera impolverata tracce che consentirono di lì a poco al custode del garage d’albergo dov’ero appena arrivato la ricostruzione precisa dell’accaduto, nonché l’assegnazione del numero d’ordine. Era la decima - dico, decima- rapina di quella giornata, probabilmente eseguita dallo stesso ragazzo e da chi l’aveva aiutato, dall’altra parte della strada, facendolo saltare sul motorino per fuggire.
Durante quel mio ultimo soggiorno a Napoli, in galleria e a due passi dalla sede del Mattino, dove tanti anni prima il mitico direttore Giovanni Ansaldo mi aveva paternamente consegnato qualche libro da recensire per soddisfare la mia voglia di giornalismo e mettermi alla prova, ebbi un’illuminante chiacchierata con un amico, ex collega di studi, che aveva intrapreso la carriera di magistrato ed era salito abbastanza in alto, e a rischio, per andare in giro scortato. Ebbene, ad un certo punto il discorso cadde sulla mia disavventura di rapinato o derubato, sempre come preferite. E mi venne un’idea che non mi sono più tolto dalla testa pensando a Napoli e alla sua non gioventù ma fanciullezza rubata, con tutti quei ragazzi - come l’Ugo che ci ha appena rimesso la vita- abituati, aiutati, incoraggiati, coperti e quant’altro dalle loro famiglie a delinquere, scommettendo sulla capacità o padronanza di nervi del malcapitato di turno, disarmato o armato e lucido abbastanza per prendere la mira giusta, sparando alle gambe e non al torace o alla testa, pur avendo di fronte in quel momento solo quegli obiettivi, e non potendosi sporgere più di tanto dal finestrino.
L’idea che mi permisi di esporre - povero e ingenuo giornalista ch’ero, e sono rimasto anche in età molto appetibile, a quanto sembra, ai coronavirus che vagano ormai per tutto il mondo, o quasiera ed è quella di privare della patria potestà i genitori che non sanno o non vogliono esercitarla. O la esercitano alla rovescia, per insegnare a rubare o a devastare gli ospedali e non a studiare o lavorare, spesso trasmettendo ai figli i loro sciagurati mestieri. A costoro i figlioli andrebbero tolti e affidati - dicevo e penso ancora- a mani più avvedute e davvero soccorrevoli.
Non l’avessi mai pensato e detto. Il mio amico magistrato mi guardò torvo come se non ci fossimo mai conosciuti e frequentati. Poi, calmatosi, cominciò a spiegarmi - secondo lui- le ragioni per le quali non ci si poteva né doveva intromettere negli affari familiari degli altri. Se lo facessimo - mi disse a un certo punto parlando al plurale, come per nome e per conto di tutti i suoi colleghi di togaci sterminerebbero tutti. Non si salverebbe nessuno, aggiunse per rafforzare e al temo spesso chiudere il suo ragionamento.
La Napoli che da bambino, raggiungendola di sera in auto con i miei genitori dalla Puglia, mi sembrava una donna con una collana di luci al collo; la Napoli che avevo scambiato per un santuario quando mia madre mi ci portò piena d’ansia e di speranza quasi miracolosa per farmi guarire da una malattia che nessuno aveva prima di allora saputo diagnosticare; la Napoli che al primo anno di Università mi aveva fatto scoprire e ammirare maestri di diritto come Antonio Guarino e Francesco De Martino, le cui lezioni di storia del diritto romano erano semplicemente un incanto, diversamente dalle prove che poi il suo autore mi avrebbe dato come segretario del Partito Socialista, quello del “mai più al governo con la Dc senza l’appoggio dei comunisti”; la Napoli che mi aveva già tradito con la storia giudiziaria del mio amico Tortora facendo comunque in tempo a rimediarvi con l’assoluzione che Enzo meritava, sia pure troppo tardi perché lui se la potesse godere davvero; quella Napoli mi sembrò in galleria, di fronte alla paura del mio amico magistrato di morirvi nell’uso del buon senso, davvero e definitivamente perduta. E non vi ho più messo piede.