«La norma da sola non basta: nella giustizia bisogna investire, perché ogni norma sconta la propria ricaduta pratica». E ancora: «L’inasprimento delle pene non può essere la risposta. In generale non ha mai funzionato, né sotto il profilo preventivo, né deflattivo di un determinato fenomeno. Serve un lavoro di educazione, affidato alle famiglie, alla scuola, e anche alle professioni: veicolare il concetto di diritto, legalità e uguaglianza è anche compito della cultura degli avvocati, che sono umanisti prima ancora che giuristi». All’indomani dell’approvazione in Senato della legge contro la violenza di genere, l’avvocata e vicepresidente del Consiglio nazionale forense, Patrizia Corona, fa il punto sul dibattito relativo al ruolo della cultura e dell’educazione nel fermare la catena di violenze che porta ai femminicidi. Un fenomeno che non sarà «fermato né dall’onda emotiva del momento né dalle norme» senza un vero cambiamento culturale, ribadisce la vicepresidente del Cnf. La cui Commissione pari opportunità ha promosso insieme alla Fai un’iniziativa organizzata in piazza dell’orologio a Roma in occasione del 25 novembre: un’installazione artistica, un tunnel costellato dei nomi di tutte le donne vittime di violenza nell’ultimo anno.

Presidente Corona, l’omicidio di Giulia Cecchettin è letto come un omicidio frutto della cultura patriarcale che ancora resiste nel nostro Paese. Che idea si è fatta del dibattito in corso?

Quella di Giulia è l’ultima di una serie di vicende che hanno visto le donne vittima di una violenza che deve essere certamente indagata dal punto di vista sociale per capirne le cause. È una vicenda che forse ha colpito particolarmente la sensibilità dell’opinione pubblica per la giovane età dei protagonisti e per le motivazioni che sembrano emergere dagli atti: cioè l’affermazione di una ragazza dal punto di vista culturale e delle prospettive future. Credo che sia un elemento da non sottovalutare, in generale, partendo dal dato singolo di questa terribile vicenda.

Si fa ancora fatica ad accettare l’emancipazione femminile?

Sono convinta che la vera rivoluzione di questi anni sia stata quella femminile, che ha cambiato i modelli della società. L’evoluzione del ruolo femminile ha fatto avanzare la società nel suo complesso perché sono stati liberati talenti, capacità e risorse che prima erano contenute in ambiti domestici o meno pubblici. Ma si tratta di un avanzamento che forse non ha trovato, parallelamente, un adeguamento culturale da parte del genere maschile. Persiste un’inadeguatezza ad adattarsi a questo cambiamento dal punto di vista quotidiano, perché questa cultura maschile è trasversale e riguarda tutti i livelli culturali, anche i “più attrezzati”, che non ne sono immuni.

Mercoledì il Senato ha approvato all’unanimità una legge anti femminicidi che punta a rafforzare il Codice rosso, inasprendo le pene. Cosa ne pensa?

Sono convinta che l’inasprimento delle pene, purtroppo, non influirà in nessun modo nel conteggio delle future vittime. È un fenomeno che non sarà fermato né dall’onda emotiva del momento né dalle norme. Sicuramente in alcune situazioni i presidi legali possono aiutare: abbiamo visto che gli ammonimenti del questore si sono rivelati misure insufficienti. Attualmente, in presenza di “reati campanello” che possono essere sintomo di una possibile aggressività futura, molte procure utilizzano come misura cautelare, oltre al divieto di avvicinamento o l’obbligo di allontanamento, anche l’adozione del braccialetto elettronico. E nell’ipotesi in cui non ci sia il consenso da parte dell’indagato, è previsto l’obbligo di arresti domiciliari, con un inasprimento, in questo caso, rispetto alla tutela della vittima. Ma difficilmente la soluzione al problema sarà trovata nel codice penale.

Su cosa bisognerebbe puntare?

Le corsie del Codice rosso sono accelerate di molto rispetto a tutti i procedimenti ordinari, ma evidentemente servono, come sempre nella giustizia, risorse e mezzi per far fronte ai procedimenti che si devono istruire. Abbiamo visto spesso denunce finite nel cassetto. In questo senso occorre una specializzazione delle forze dell’ordine e dei magistrati che si approcciano al fenomeno, fatte salve tutte le garanzie dell’imputato. Una donna che sporge denuncia ha bisogno di trovare una certa sensibilità in chi la raccoglie, che deve essere in grado di comprendere la situazione perché in queste vicende c’è sempre una psicologia di dipendenza e di propria colpevolizzazione che a volte impedisce di essere consapevoli del tutto dell’entità del rischio.

A proposito di garanzie dell’indagato o dell’imputato, il difensore di Filippo Turetta ha già avanzato l’idea di richiedere una perizia psichiatrica. 

Bisogna ribadire che l’obbligo di difesa è sacro e intangibile per tutti. Esiste il delitto d’impeto, esiste un’incapacità non necessariamente patologica e perdurante, ma anche momentanea di intendere e di volere. In questo caso non abbiamo ancora elementi per valutare.

Parliamo di gender gap. Lei ha raggiunto una posizione apicale all’interno dell’avvocatura istituzionale, e la presenza delle donne nelle professioni è sempre più ampia. Ma i dati sul reddito delle avvocate diffusi da Cassa forense non sono confortanti...

Forse il dato più sconfortante riguarda il gap registrato all’ingresso della professione. Questo ci dice che la cultura discriminatoria nei confronti delle donne il cliente ce l’ha ancora. Il fatto che ci siano colleghe che hanno visibilità all’interno delle istituzioni contribuisce a rafforzare la parità anche sul profilo professionale, che forse non è scontata. C’è ancora tanto da fare. Perché le donne ci sono, basta vederle.