Una legge è possibile. «Non sarebbe possibile però una legge sull’ergastolo ostativo che reintroducesse un divieto», spiega il presidente emerito della Consulta Cesare Mirabelli. Una valutazione che potrebbe addirittura trovarsi a esprimere il presidente della Repubblica.

Perché in effetti un provvedimento che «stabilisca parametri e principi fissi da seguire per concedere o negare i permessi agli ergastolani ' ostativi'», come auspicato sul Fatto quotidiano dai direttori Marco Travaglio e Peter Gomez, è un tema all’ordine del giorno. «Se reintroducesse il divieto dichiarato illegittimo della Corte, una simile norma sarebbe palesemente incostituzionale», ricorda il presidente Mirabelli, «al punto che il Capo dello Stato potrebbe valutarne il rinvio alle Camere. Certo, va tenuto conto che qualora il Parlamento riproponesse quel provvedimento, lo stesso presidente sarebbe tenuto a promulgarlo. Ma credo che un ipotesi di contrasto fra il legislatore e la Consulta sia lontana».

D’altra parte è già molto attivo il fronte schierato per una immediata replica alla pronuncia che ha eliminato il divieto assoluto di permessi agli ergastolani ostativi ( condannati per mafia e terrorismo).

Con il Fatto, che ha aperto una petizione on line, si sono espressi, per esempio, la capogruppo del M5s nella commissione Affari Costituzionali di Montecitorio Anna Macina ( in un’intervista al Dubbio) e diversi magistrati, come il togato del Csm Sebastiano Ardita.

Il cuore del dilemma riguarda la possibilità che il legislatore dichiari tassativamente inefficace per alcune specifiche figure di ergastolani la sentenza della Corte costituzionale. Ad esempio, per chi è stato capomafia. Sarebbe legittima una norma simile?

No. Vorrebbe dire reintrodurre in altra forma il divieto che la Corte ha dichiarato incompatibile con la nostra Costituzione. Il legislatore può precisare i parametri in base ai quali il giudice valuterà quanto l’ergastolano possa essere ancora pericoloso, ma senza reintrodurre automatismi né eliminare la discrezionalità del giudice stesso. Ma mi permetta di partire dai dati che abbiamo a disposizione.

Certo.

Ecco, intanto noi non abbiamo le motivazioni della Consulta, e dobbiamo procedere sul piano delle ipotesi. Sappiamo però che la sentenza emanata dalla Corte si muove nella stessa direzione del giudizio espresso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Sappiamo anche come nel nostro ordinamento sia definitivamente acquisita la funzionalità che i contatti al di fuori del carcere assumono rispetto al reinserimento del condannato. Ciò detto, la Corte di Strasburgo da parte sua ha ritenuto che la rottura dei rapporti con l’organizzazione criminale debba poter essere dimostrata anche in maniera alternativa alla collaborazione. Altrimenti, ha chiarito la Cedu, la pena diviene contraria ai principi di umanità.

Plausibile che la nostra Corte costituzionale abbia seguito la stessa linea?

Noi sappiamo per certo che la nostra Corte si è spinta oltre il perimetro, già chiarito, della cosiddetta collaborazione inesigibile. Sappiamo cioè che la sentenza del 23 ottobre scorso riguarda necessariamente la possibilità che il condannato provi di non avere più un rapporto con l’organizzazione criminale nonostante non abbia avviato la collaborazione con la giustizia.

È caso di chi teme per l’incolumità di persone care che non potrebbero essere incluse nel programma di protezione?

Nelle pronunce europea e italiana tale aspetto è certamente emerso. Ecco, qui interviene la saggezza del giudice. Perché è evidente che potrebbe esserci un pericolo, ma ora il giudice non dovrà valutarne la sussistenza in modo burocratico. Dovrà verificare in altro modo che non vi siamo più contatti con la cosca, per esempio.

Quindi l’eventuale legge non potrà introdurre nuove preclusioni.

Non può indicare casi in cui la domanda di permesso torni a essere inammissibile, a non dover essere neppure presa in considerazione. Può però precisare in che modo debbano essere provate le condizioni necessarie alla concessione del permesso. Se intervenisse così, una nuova legge non confliggerebbe con la sentenza. Se si spingesse oltre lo farebbe.

Già ora l’ordinamento indica come vincolanti le eventuali valutazioni di pericolosità contenute nei pareri che il giudice deve acquisire dalla Dna, per esempio.

E si tratta di valutazioni che hanno evidentemente un grande rilievo, considerata l’ampiezza del panorama che il procuratore nazionale Antimafia può osservare. Certo, chi è stato a capo di una organizzazione può mantenerne un controllo morale seppur non operativo. È il re in esilio che se rientra riprende il suo ruolo. Diverso è il caso del soggetto che abbia avuto una posizione diversa.

Il che vuol dire che una legge potrebbe tassativamente escludere determinati soggetti per il fatto stesso di essere stati ” capi”?

No. Il legislatore può fissare dei parametri ragionevoli che il giudice deve utilizzare. Ma se stabilisse delle esclusioni tassative passeremmo dalla zuppa a pan bagnato, tanto per semplificare all’estremo. Non si può bypassare la decisione della Corte, si configurerebbe un vizio di violazione del giudicato costituzionale. In ogni caso qualunque nuova legge, ovviamente, è esposta al vaglio della stessa Corte costituzionale, oltre che a quello del presidente della Repubblica.

Secondo Milena Gabanelli i detenuti mafiosi restano in contatto con le cosche grazie ai loro avvocati.

L’avvocato ha degli obblighi deontologici, ed è sottoposto come tutti alla legge penale. Anche il peggiore dei delinquenti ha diritto ad essere difeso: è una regola di civiltà. Un conto è il difensore, altro è il consigliori, che commette reati. E comunque è chiaro come sia assai più complesso il dovere di decidere secondo diritto e con determinate garanzie. Gli inglesi portavano i detenuti indesiderati in Australia. Ma lo Stato di diritto è un’altra cosa.