Cesare Mirabelli, già presidente della Corte costituzionale, sull’idea di un premierato è netto: «Il fatto che il presidente del Consiglio nomini i ministri esproprierebbe il capo dello Stato della sua funzione di garanzia». Quindi commenta: «Ben venga una discussione ad ampio raggio, purché siano chiare le proposte delle parti politiche e si faccia una verifica di quello che l’alterazione di questo o quel modello produrrebbe nel sistema».

Presidente Mirabelli, sulle riforme costituzionali la maggioranza ha intenzione di ascoltare tutti, a partire dagli incontri di oggi, ma ha fatto capire che andrà avanti per la propria strada, se necessario fino al referendum: crede sia possibile un accordo tra maggioranza e opposizione?

Dal punto di vista formale una revisione della Costituzione è possibile con una doppia lettura e con le maggioranze previste dalla Carta, visto che oltre un determinato consenso non c’è possibilità di referendum. Ma occorre dire che una forma incisiva di revisione, che riguardi ad esempio la forma di governo, forse renderebbe comunque opportuno un referendum. Detto questo, la Carta contiene le regole comuni e perciò dovrebbe essere sganciata dalla visione di una maggioranza e dalla contrapposizione tra maggioranza e minoranza. Del resto, lo spirito costituente è uno spirito di unità e una revisione incisiva dovrebbe seguire questo percorso. Tuttavia spesso non si è proceduto in questo modo, basti pensare alla revisione del titolo V, deliberata da una maggioranza ben definita.

Pensa che in questo caso possa esserci un terreno comune tra la maggioranza e quantomeno alcune delle forze di opposizione?

L’obiettivo che mi pare ci si pone in comune è il rafforzamento del governo e una maggiore funzionalità delle istituzioni. Il rafforzamento del governo dipende largamente, oltre che dalla forma istituzionale, dalla coesione delle forze politiche e dall’esistenza di una maggioranza solida. Lo vediamo oggi, con una maggioranza numericamente larga e che sembra coesa nelle scelte fondamentali, la quale esercita pienamente il potere. E abbiamo visto in passato che, in situazioni di necessità, una maggioranza del genere ha il dominio sul Parlamento, perché attraverso decreti legge e voti di fiducia riesce a deliberare in tempi rapidi sulle scelte normative che intende fare. Talvolta il Parlamento sembra emarginato e quindi serve riequilibrare la forza del governo con il potere di forte controllo che spetta al Parlamento.

Eppure non sembra questa la linea, se è vero che la maggioranza ha in mente una riforma in senso presidenziale con l’elezione diretta del capo dello Stato o, al massimo, un premierato con l’elezione diretta del capo del governo: che ne pensa?

La riforma che si propone la maggioranza è orientata in senso presidenziale ma anche qui bisogna vedere in dettagli qual è il modello che si intende perseguire: vogliono l’elezione diretta del presidente della Repubblica? E se sì, con quali poteri? Una riforma del genere prevederebbe una revisione molto ampia della Costituzione, basata sul modello americano di un presidente della Repubblica eletto direttamente dai cittadini che è capo dell’esecutivo ma è fortemente controllato dal Parlamento. Se invece parliamo di premierato, anche questo in linea teorica si potrebbe fare ma un modello del genere non può prevedere crisi parlamentari. E quindi come si sostituisce il capo del governo in caso di crisi? Con nuove elezioni? Infine c’è il modello francese, ma anche questo prevederebbe un forte riequilibrio tra poteri.

Un altro dei modelli che si prendono in considerazione, e che è spinto, ciascuna in maniera diversa, anche dalle opposizioni, è il cancellierato alla tedesca. La convince?

Al di là della nomenclatura, gli equilibri possono essere diversi e su questo il colloquio parlamentare è fondamentale. Ci possono anche essere riforme di dettaglio con il presidente del Consiglio che nomina i ministri ma questo esproprierebbe il capo dello Stato della sua funzione di garanzia. Ben venga una discussione ad ampio raggio, purché siano chiare le proposte delle parti politiche e si faccia una verifica di quello che l’alterazione di questo o quel modello produrrebbe nel sistema. Detto questo, l’esigenza è quella di garantire rappresentanza e governabilità con equilibrio. Che può essere trovato sia con leggi elettorali che tendano all’aggregazione non solo nel momento elettorale ma in maniera funzionale nell’arco di tempo della legislatura, sia rafforzando durata ed efficienza dell’azione di governo. Quest’ultima può essere perseguita sia con un modello alla tedesca, che richiede minori interventi incisivi sulla costituzione e meno revisioni globali, sia con un modello semipresidenziale alla francese, che però ha bisogno di un’ampia revisione perché tocca anche il presidente della Repubblica e gli organi di garanzia.

Ha parlato di legge elettorale: pensa che debba andare di pari passo con la riforma costituzionale, come fu nel 2016 per l’Italicum e la legge Renzi-Boschi?

Le riforme cosiddette sub-costituzionali hanno un rilievo importantissimo. La riforma della legge elettorale ha dei risultati molto incisivi, così come la ridefinizione dei rapporti tra governo e Parlamento, con la revisione dei regolamenti parlamentari, che possono semplificare grandemente il percorso tra Camera e Senato, consentendo decisioni assai rapide.

A proposito di Parlamento, un altro dei punti su cui si discute danni è la fine del bicameralismo paritario: pensa che questa possa essere la volta buona?

Il bicameralismo paritario può essere una lentezza ma anche una risorsa, nel caso in cui una delle due camere approva con voto unico le decisioni già prese nell’altro ramo. Ma i problemi arrivano quando in un ramo del Parlamento la maggioranza ha numeri limitati, e allora c’è il tentativo della minoranza di insidiare le decisioni assunte nell’altro ramo. Non dimentichiamo poi che la doppia lettura a volte consente correzioni opportune e condivise ai testi.

C’è infine molto dibattito sul rapporto tra Stato ed enti locali, che riguarda sia la riforma Calderoli sull’autonomia sia le riforme costituzionali, con il presidente della conferenza Stato-Regioni Fedriga che sottolinea la necessità di «attenzione» verso i territori: in che modo si possono conciliare le due cose?

Mi pare che il rapporto tra stato centrale e autonomie territoriali sia un altro problema. Le Regioni non sono un contropotere dello Stato ma c’è una ripartizione di potere, anche se il clima di conflittualità è stato accentuato dalla riforma del titolo V. Da una parte c’è l’esigenza di valorizzare le autonomie, ma dall’altra vanno preservate l’unità della Repubblica e l’uguaglianza dei cittadini, cioè principi costituzionali che circoscrivono le autonomie territoriali. E sottolineo infine che le autonomie andrebbero bilanciate anche da un più semplice e rapido esercizio diretto dei poteri centrali dello Stato, nel momento in cui entra in gioco l’interesse nazionale.