Con il traffico di droga non c’entrava nulla. Ma Michele Padovano, tra gli eroi di quella Juventus che vinse la Champions League del 1996, ha dovuto attendere 17 anni per sentirselo dire in un’aula di Tribunale. Anni di gogna, sospetti e di isolamento arrivato anche da quel mondo nel quale era nato e cresciuto, il calcio, che all’improvviso lo ha trattato come un estraneo. Lo hanno evitato tutti o quasi. Qualcuno, come Gianluca Vialli, capitano di quella squadra che alzò al cielo la coppa dalle grandi orecchie, ha deciso di rimanergli accanto.

L’ex attaccante e dirigente sportivo, nel 2006, era stato raggiunto da tre macchine della polizia davanti al ristorante dove aveva cenato con degli amici. Le manette ai polsi, la perquisizione in casa e poi il carcere. Un buco nero che ha ingoiato tutto, fino a martedì, quando la Corte d’Appello di Torino, dove il processo era tornato dopo l’annullamento in Cassazione del 2021 della condanna a sei anni e otto mesi rimediata nel primo processo d’appello, ha sentenziato la sua innocenza. «Diciassette anni fa un clic ha spento la luce nella mia vita - ha spiegato subito dopo l’assoluzione -. Oggi il buio se n’è andato via. E spero di riprendermi qualcosa di quello che mi è stato tolto con tanta violenza».

Diciassette anni in mano alla giustizia sono tanti. Come li ha vissuti?

Sono stati molto difficili, perché quando vieni travolto da una situazione del genere viene messo tutto in discussione. Ieri dopo l'assoluzione, ho provato un sentimento che fatico a trasmettere: abbiamo smesso di piangere soltanto oggi, perché 17 anni di tensioni del genere vi assicuro che non sono uno scherzo. Ho provato una gioia immensa, che mi permetterà di ricominciare a vivere senza quel peso.

Cosa ricorda del suo arresto?

Ho pensato ad uno scherzo. Mi aspettavo che di lì a breve saltassero fuori le telecamere e mi dicessero che ero su Scherzi a parte. Purtroppo più passava il tempo più mi rendevo conto che uno scherzo non era. Mi hanno arrestato davanti al ristorante dove mi trovavo a cena con amici. Mi portarono a casa, dove fecero una perquisizione senza trovare nulla. Ma dissero che l’esito era positivo, perché mi sequestrarono il telefonino. Dopo la perquisizione mi portarono in questura a Venaria per le impronte digitali e le foto segnaletiche e subito dopo a Cuneo, dove arrivai alle 5 del mattino. Finì in cella di isolamento, con una branda e una turca. È stata dura. Dopo dieci giorni mi dissero di preparare le mie cose: pensavo che si fossero resi conto dell’errore. Invece mi fecero salire su un blindo per un viaggio lungo quattro ore e mezza. Continuavo a chiedere dove stessimo andando ma nessuno mi rispondeva. Arrivammo a Bergamo, al carcere speciale, dove ero un pesce fuori dell'acqua. Finì in cella con una persona che stava lì da 18 anni. Dovevo avere la forza di reagire, anche per chi era a casa, i miei familiari, che hanno subito forse quanto me i pregiudizi della gente.

Come sono stati quei tre mesi in carcere?

Del carcere ne avrei fatto sicuramente a meno, ma la mia forma mentis mi porta a trovare sempre il lato positivo, anche nelle situazioni più difficili. Devo dire che ci sono riuscito, perché ho trovato all'interno del carcere grande umanità, cosa che non posso dire per la vita di tutti i giorni. Ho cominciato a fare sport, assieme ad un gruppo di ragazzi per i quali ero un po’ un allenatore. Le è pesato ciò che dicevano i giornali di lei? Per i primi dieci giorni non ho avuto contezza di ciò che si scriveva sui giornali. Gli agenti mi dicevano che ero su tutte le prime pagine, che al telegiornale per giorni si faceva sempre il mio nome. Io non potevo far altro che cercare di uscire da quella situazione con la quale non c’entravo nulla.

E il mondo del calcio è stato solidale o si è visto voltare le spalle?

Gli unici che mi sono stati vicini e mi hanno creduto sono stati Gianluca Vialli, che chiamava mia moglie per sapere come stavo, e Gianluca Presicci, che ha giocato con me nel Cosenza. Siamo rimasti sempre in ottimi rapporti e non ha mai avuto dubbi. Per quanto riguarda gli altri miei ex compagni, ho sempre percepito un pregiudizio, che non capivo, ma comunque ne ho preso atto e sono andato avanti per la mia strada.

Tra le altre cose Vialli era stato anche tirato in ballo come una delle persone alle quali lei avrebbe ceduto hashish, cosa poi smentita processualmente.

Una cosa assurda. Gli atti hanno dimostrato che le cose non sono andate così, se ne sono uscito io non poteva che uscirne anche lui.

Però sono serviti 17 anni. Quali sono state le conseguenze sulla sua vita lavorativa?

È stata una tragedia sotto tutti i punti di vista. Di quello che ho costruito, prima che mi succedesse questa brutta vicenda, è rimasta la mia famiglia, che oggi posso dire più unita che mai. Per il resto all'epoca avevo proprietà immobiliari importanti che oggi non ho più, avevo un lavoro nel mondo del calcio che di fatto mi avrebbe proiettato in una carriera dirigenziale importante e che ho perso, mi sono ritrovato senza entrate. Un danno economico e psicologico non indifferente. Io pensavo di uscirne subito ma così non è stato. Dopo la condanna ho deciso di affidarmi a Giacomo Francini e Michele Galasso, i miei avvocati, che sono stati anche i miei angeli custodi. Hanno creduto in me sin dal primo momento e oggi assieme alla mia famiglia li ringrazio perché hanno fatto un lavoro strepitoso.

Crede ancora nella giustizia?

Credo che una giustizia che funzioni non possa tenere in piedi un processo per 17 anni. È un’intera vita. Per carità, io ho sempre creduto nei giudici e ringrazio quelli che mi hanno assolto. Io ho avuto la forza di affrontare il tutto con grande carattere e consapevole della mia innocenza ho lottato. Ma chi non ci riesce e si ammala per questo con chi dovrebbe prendersela? Come è finito in mezzo a questa storia?

Per un prestito a un amico di infanzia, poi coinvolto nell’operazione. Sono cresciuto con delle persone che poi hanno fatto delle scelte differenti, ma non per questo ho rinnegato l’amicizia che ci legava. E non la rinnego neanche oggi. Ho prestato dei soldi ad un amico per comprare un cavallo, com’è stato dimostrato anche in dibattimento. Ma non mi credevano.

È stato ingenuo?

No, il mio amico non mi ha ingannato e lo abbiamo dimostrato in aula. Purtroppo questa vicenda mi ha fatto capire che con i miei soldi non potevo fare quello che volevo.

Lei ha continuato a bussare alle porte delle società per continuare a lavorare, così come faceva prima di essere arrestato. Cosa le hanno risposto?

Nei colloqui di lavoro percepivo il pregiudizio dell’interlocutore. Non potevo che prenderne atto e continuare a cercare qualcuno che mi desse fiducia e un’opportunità. Devo dire con scarsi risultati. Dopo 25 anni di carriera calcistica conoscevo tutti e ho contattato tutti chiedendo un lavoro e non ho mai ricevuto risposta. Alcuni non mi ricevevano nemmeno.

Come è riuscito a mantenersi in piedi?

Mi sono inventato di tutto e di più. Ho investito in un bar, in un’azienda che si occupava di ristrutturazione di barche, ho aperto un parco giochi per bimbi. Ho dovuto reinventarmi, perché il mio mondo non mi dava spazio e non riusciva in nessuna maniera a darmi una mano.

Cosa vuole dire a chi ha creduto che lei potesse essersi macchiato dei reati di cui era accusato?

Non me la prendo con chi ha giudicato troppo in fretta avendo dei grandi pregiudizi. Io da questa vicenda ho imparato che non bisogna mai giudicare nessuno, almeno io sono fatto così. E se si vuole veramente essere garantisti, bisogna esserlo fino a che i tre gradi di giudizio non si sono espressi. Anche dopo una condanna di primo grado e di appello.