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Diciamolo subito: linfinito rimpallo di accuse tra Matteo Renzi e i suoi aficionados da un parte e le opposizioni interne al Pd dallaltro, è esercizio talmente stucchevole da aver fiaccato la resistenza anche dei più solerti cultori della materia. Quanto agli elettori, cosa ne pensino lhanno fatto intendere portando a livelli record il tasso di astensionismo. Per cui è irresistibile la tentazione di spedire immediatamente nel dimenticatoio lennesimo capitolo del romanzo che, stavolta, vede protagonista Massimo DAlema e la sua (nettamente smentita) intenzione di votare i Cinquestelle a Roma per dare un colpo al suo successore a palazzo Chigi. Che dentro al partito del premier sia in corso una guerra alzo zero tra i due schieramenti, lo sanno tutti. Immaginare di affrontarla come uno fatto personale tra rottamati e rottamatori è fuorviante. Piuttosto il nodo è quanto politicamente ed elettoralmente significativa sia nel Pd la presenza della minoranza. Più brutalmente: a Renzi conviene tener buoni i suoi critici o, come questi ultimi lo accusano, lavorare per costringerli ad abbandonare il Nazareno?Il punto di partenza non può che essere la crescente emorraggia di voti che contraddistingue il Pd dallexploit delle Europee in poi. Lanalisi dei flussi elettorali dimostra che il picco del 2014 ha rappresentato più un elemento solitario che non linversione della decrescita e linizio di una avanzata.I numeri, in primis. Già alle elezioni del 2013 (prima di Renzi) il Pd aveva raccolto 3,5 milioni di voti in meno rispetto al 2008 a fronte di una partecipazione al voto per la prima volta nella storia repubblicana scesa sotto l80 per cento (75,20). Trend confermato nelle Europee del 2014 (venti milioni di votanti contro i 35 della volta precedente) ma con un boom renziano: 2,5 milioni di voti in più e barriera del 40 per cento frantumata.Da quel momento, però, la china è discendente. Alle Regionali del 2015, nelle cinque regioni del Centro-Nord (Liguria, Veneto, Toscana, Marche, Umbria) i candidati del Pd, pur con il sostegno delle liste alleate, hanno preso 1.753.000 voti rispetto ai 2.880.000 conquistati dal solo Pd nel 2014. Alle Comunali del 5 giugno, il trend negativo si è rafforzato. A Torino, Fassino ha preso 30 mila voti in meno rispetto al Pd renziano delle Europee e 10 mila in meno di quello bersaniano. A Milano, i voti per Sala sono stati 20 mila in meno di Bersani 2013 e trentamila in meno del Pd renziano. A Bologna e Roma, il tonfo rispetto al 2014 è colossale: meno 44 e meno 38 per cento rispettivamente.Tutto questo dimostra che la capacità espansiva di Renzi oltre i tradizionali confini elettorali della sinistra si è esaurita: la calamita nei riguardi del voto moderato, segnatamente di origine berlusconiana - stilema della narrazione renziana e asso nella manica per dare corpo alla svolta - si è affievolita fino ad azzerarsi. Per contro, emerge la disaffezione crescente e apparentemente inarrestabile degli elettori piddini verso il loro partito. Il presidente del Consiglio e segretario Pd, come è noto, ama vincere in trasferta e guadagnare consensi laddove, appunto, mai la sinistra era arrivata. Se però contemporaneamente si sfilacciano le maglie del proprio elettorato di riferimento, Renzi rischia di assomigliare ad un generale che studia alla perferzione i difetti dellesercito nemico e non si accorge degli ammutinamenti nel proprio.Dunque si torna al quesito di fondo. Che può essere così formulato: la permanenza dentro al partito della o delle minoranze aiuta a drenare la perdita di consensi targati Pd? La risposta è doppia a seconda dellinterlocutore. Come si è visto, Renzi non solo non concede nulla ai suoi oppositori ma dileggia la possibilità di esistere politicamente a sinistra del suo partito: i risultati delle amministrative lo dimostrano. E quel «mai con il Pd» del coordinatore nazionale di Sel, Nicola Fratoianni, per vari motivi lo conferma. Mentre lopposizione interna, ormai sempre più apertamente, avverte che il punto di non ritorno è vicinissimo e il possibile addio al partito, pure.Chi ha ragione? Guardando solamente allItalia, forse Renzi. Ma allargando lo sguardo, non è sempre così. Bernie Sanders negli Usa; Jeremy Corbin in Gran Bretagna e, per certi versi, anche Alexis Tsipras in Grecia sono esempi di una presenza di sinistra non moderata che ha forza e legittimazione. Obiezione: tranne Tsipras sono tutti perdenti. Vero, anche se solo fino ad un certo punto. certamente, Renzi è saldo in sella e competitor validi dentro al Pd non sono alle viste. Tuttavia se la fuga di consensi Pd persiste e se le principali città del Paese passano in mano alle opposizioni, anche limmagine vincente del premier è destinata ad appannarsi.Come se ne esce? In ogni caso, con un cambio di strategia da parte del leader del Nazareno. Se infatti la presenza della sinistra interna è utile ai fini di un freno alla perdita di voti, Renzi non potrà che cercare un atteggiamento più dialogante almeno con gli esponenti più disponibili, se ve ne sono. Se invece non è così, la resa dei conti sarà inevitabile anche in tempi brevissimi. Ma in ogni caso al capo del governo resterà da risolvere il problema di ricominciare a prendersi il voto di sinistra che gli ha voltato le spalle. Stando ben attento, a riprendere la marcia di conquista per far bottino in campo avverso. Due obiettivi apparentemente in contraddizione. Dunque un esercizio altamente acrobatico.