Raffaele Lombardo ha ripreso a respirare a pieni polmoni, a contatto con la natura nel suo agrumeto, dopo un’odissea giudiziaria durata circa dieci anni. L’ex presidente della Regione Siciliana, assolto un mese fa dalla Corte d’appello di Catania dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione elettorale, racconta la sua esperienza che lo ha segnato come uomo e come rappresentante delle istituzioni al culmine della popolarità in Sicilia e nel panorama politico nazionale. A Palazzo d’Orleans fecero parte della sua Giunta due magistrati antimafia: Caterina Chinnici e Massimo Russo. Il tritacarne mediatico nel quale è finito non ha fatto perdere all’ex governatore siciliano la fiducia nel sistema giudiziario e non ha spento, nonostante tutto, la passione per la politica. Lombardo è stato difeso dagli avvocati Vincenzo Maiello (ordinario di Diritto penale nell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”) e Maria Licata.

Dottor Lombardo, come sta trascorrendo questi giorni e con quale stato d’animo?

«Trascorro questi giorni con la mia famiglia, come sempre, e con i miei amici e dedico molto tempo all’agrumeto. Il tutto con una ritrovata serenità, pur consapevole del fatto che la mia vicenda giudiziaria non si è ancora conclusa».

Lei è stato descritto secondo i paradigmi più infamanti per un uomo delle istituzioni: corrotto e colluso con la mafia. La sua odissea giudiziaria cosa consegna alla storia della Sicilia e del nostro Paese?

«Non so quanto gli italiani siano interessati alla storia, auspico che le nuove generazioni maturino per essa un interesse maggiore di quella che manifesta quella contemporanea. La mia vicenda giudiziaria è stata segnata da una grande anomalia che dovrebbe spingere tutti a più di una riflessione. Io appresi dell’indagine a mio carico dagli organi di stampa e questo è un fatto sempre disdicevole, ma a maggior ragione lo è quando investe una carica pubblica, poiché mina alla radice la fiducia dei cittadini nei confronti di essa. Non è ciò che è accaduto soltanto alla persona Raffaele Lombardo che io stigmatizzo, ma soprattutto all’istituzione che all’epoca rappresentavo. E sul punto vorrei essere chiaro».

Dica pure.

«Io non ritengo ingiusto essere stato sottoposto a processo perché è doveroso che la magistratura indaghi, quando ha notizia di fatti che possono costituire reato o ritenga che vi siano fatti che meritino in questa prospettiva un accertamento. Non ritengo neppure ingiusto che la Procura abbia ritenuto di sostenere l’accusa nei miei confronti e che si sia celebrato un processo nel quale mi sono difeso con i miei avvocati ed è stata da ultimo pronunciata una sentenza. Credo, peraltro, che vada ricordato che la Procura della Repubblica inizialmente richiese l’archiviazione per il reato di concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso e venne ordinata dal Gip l’imputazione coatta. Tutto ciò attiene, comunque, alla fisiologia di uno Stato di diritto. Quello che, invece, è estraneo ad essa è che notizie riservate siano state date alla stampa, in violazione evidente della legge e senza che nessuno abbia seriamente indagato, come mi si dice sempre accade in casi del genere, su come sia stato possibile e sulle ragioni di ciò. La campagna di stampa avviata nei miei confronti ha fortemente inciso sulla mia vicenda processuale e sulla decisione di rassegnare le dimissioni, vanificando un’esperienza politica intrapresa con il consenso di 1 milione e 800 mila voti liberamente espressi, il 66% del totale».

Nella sua Giunta sedevano anche due assessori ex magistrati antimafia…

«E con loro altri tecnici e politici di assoluta competenza e integrità».

Si definisce vittima della “giustizia ingiusta” e della gogna mediatica?

«No, non mi ritengo una vittima. Non si addice alla mia indole e l’esito di questo grado di giudizio, che conferma la fiducia da sempre da me riposta nel sistema giudiziario, lo dimostra. Gli anni del processo sono stati troppi ma il sistema ha le sue regole ed alcune di esse sono il portato di un pensiero complesso elaborato in secoli di storia. Oggi comprendo che un processo rapido non è per ciò stesso un processo giusto. Ci sono i tempi dell’accusa, ma anche quelli della difesa e c’è soprattutto il diritto di appellare, di contrastare una decisione che si ritiene ingiusta, innanzi ad un giudice che sia sempre terzo».

A distanza di anni anche dalla sua vicenda giudiziaria, errori e lanci di fango mediatici sembrano non essere stati eliminati. È più facile condannare nei “tribunali televisivi” che nelle aule giudiziarie?

«Nelle aule giudiziarie si discute di fatti, ma, soprattutto, accusa e difesa si confrontano, ascoltando l’una le ragioni dell’altra e la sintesi è affidata ad un giudice che il sistema impone essere terzo. Tutto ciò negli studi televisivi, ma anche in altri contesti per il vero, sembra impossibile ed è considerato quasi infamante ammettere di avere commesso un errore di valutazione. A ciò si aggiunga che la maggior parte della stampa è alla costante ricerca di un colpevole verso il quale indirizzare le frustrazioni di una massa di inconsapevoli consumatori del prodotto mediatico».

I danni per chi finisce in questo tritacarne però sono incalcolabili…

«Assolutamente e non solo per l’interessato, ma anche per i familiari che subiscono incolpevoli il peso di tutto ciò. Ma il danno maggiore lo si arreca proprio al sistema giudiziario che deve resistere alla pressione esterna di un’opinione pubblica non sempre consapevole e culturalmente attrezzata».

Riprenderà a fare politica?

«Avendola fatta attivamente e quasi esclusivamente per quarant’anni anni è impossibile disinteressarmene. Mi prefiggo di dare una mano a chi ha fiducia e vuole scommettere sull’idea autonomista e sul movimento che nel 2005 con alcuni coraggiosi fondammo».