L'altro giorno, grazie all'iniziativa del nostro giornale sullo statista democristiano, ho ripreso in mano L'affaire Moro di Leonardo Sciascia. Un libro bellissimo, come del resto tutta la produzione dello scrittore siciliano. Mentre lo leggevo sono rimasta colpita dalla definizione di Pier Paolo Pasolini sul latinorum di Moro. Diceva Pasolini che il latinorum, come quello che odiava Renzo dei Promessi sposi, veniva usano dal leader democristiano per non farsi capire e mantenere il potere. È una famosa definizione che l'autore delle Lettere Luterane elabora all'interno del giudizio severissimo che dà della democrazia cristiana, in cui paradossalmente proprio Moro è in realtà il meno coinvolto, il meno implicato, ma forse per questo il più responsabile di usare la lingua del potere.Sono rimasta di stucco. Perché a distanza di tanti anni ciò che colpisce della figura e degli scritti di Moro è semmai la chiarezza, la logica, il rigore argomentativo. Con il senno di poi, almeno a me, ciò che risulta incomprensibile è il giudizio di Pasolini, non ciò che diceva e scriveva lo statista sotto accusa. Moro, riletto oggi, sconcerta per la sua chiarezza. Eppure per Pasolini usava una lingua troppo elaborata, lontana dalla gente, da ciò che la gente secondo lui avrebbe capito.In ogni caso l'esatto opposto della lingua politica che viene usata oggi. Seguendo infatti questo ragionamento, viene in mente la lettera di Beppe Grillo al Corriere della sera, pubblicata sabato scorso. Al posto del latinorum, usa una sorta di italiorum, mi si passi questo neologismo. Una sorta di grado zero della lingua italiana, privata di ogni traccia di ragionamento, sintassi, logica. Non c'è, nel discorso al popolo dei suoi elettori, la volontà di spiegare, di ragionare, di capire che cosa stia accadendo a Roma con la crisi della giunta Raggi. Grillo usa una serie di frasi, quasi dei tweet, che lanciano parole chiave (hastag) senza porsi il problema di andare al di là della giustapposizione. Non si costruisce un discorso, non si produce senso. L'obiettivo voluto, decisamente perseguito, è quello di arrivare alle persone con concetti semplici, ridotti all'osso, ma per questo immediati. Se Moro, secondo Pasolini, per mantenere il potere doveva usare un italiano incomprensibile per la sua complessità, qui si ha il meccanismo opposto: Grillo per giustificare e mantenere un potere che vacilla usa una lingua impoverita, volutamente degradata. Prima si voleva tenere la piazza lontana, ora la piazza è il termometro, anzi la giustificazione stessa del potere senza mediazioni. La lettera di Grillo al Corriere è, in questo senso, il manifesto linguistico del populismo. L'obiettivo non è farsi capire in maniera ragionata, ma lanciare degli slogan che possano arrivare direttamente alla pancia delle persone. Non si stuzzica la testa, si parla alla pancia. E per parlare alla pancia non si deve ricorrere al ragionamento, alla logica, alla sforzo di andare a fondo. No, tutto questo non serve. Serve invece usare un linguaggio "ovvio", elementare. Il leader Cinque stelle doveva far passare il messaggio che anche loro non sono «perfetti». Ma sono comunque unici, i migliori. Non serviva una costruzione articolata, non serviva far ricorso a un ghostwriter. È bastato mettere in fila una serie di post, insistere su qualche concetto molto lineare e riattivare non la testa, ma la connessione viscerale tra il popolo e il capo. Senza mediazioni, senza fronzoli, senza orpelli.Forse è per quello che oggi rileggere Moro fa impressione per la sua chiarezza e risulta davvero difficile dare ragione a Pasolini. Il movimento oggi più popolare vince usando l'aggressione verbale, l'accusa, il dileggio o, nel caso del suo leader, i vaffa. Non è una scelta casuale, è la conseguenza radicata in un modo preciso di intendere la politica e il rapporto con l'elettorato. Una scelta peraltro vincente.Ma si può dire, anche se è impopolare, che viene da rimpiangere il passato?