Reduce dalla sua ultima fatica letteraria, L’enigma della successione, Alfonso Celotto, professore di Diritto costituzionale all’Università di Roma Tre, spiega che «l’immunità parlamentare è un istituto sacrosanto » e che «da Mani Pulite in poi si è creato un cortocircuito a causa dell’interferenza della Magistratura sulle cariche politiche».

Professor Celotto, a cosa dobbiamo l’ormai quotidiano scontro tra politici e pm?

Il problema nasce da lontano, cioè dalla teoria della divisione dei poteri del barone di Montesquieu e dall’idea di John Locke della necessità di poteri distinti per non lasciare troppa forza a qualcuno. Tuttavia Montesquieu spiegava che la magistratura non è un potere ma un ordine, come d’altronde è scritto anche nella nostra Costituzione. Ma lui lo definiva «potere nullo», nel senso che potendo incidere sulla vita dei cittadini non doveva essere stabilizzato ma i giudici dovevano essere eletti e restare in carica per pochi mesi. Che, in fondo, è qualcosa che troviamo anche nelle recenti polemica sulla Magistratura.

In Italia molti riconducono il corto circuito tra Magistratura e politica a Mani Pulite. Crede anche lei sia stato quello il punto di rottura o preferisce fare riferimento ad altro?

Diciamo che nel corso degli anni la Magistratura si è consolidata ed è diventata un potere vero e proprio, con una forte influenza sui cittadini e sulla politica. Da Mani Pulite in poi, tuttavia, si è creato un corto circuito forte che riguarda l’interferenza che la Magistratura ha sulle cariche politiche. Basti pensare al caso Bassolino, con 19 processi penali contro l’ex sindaco di Napoli e presidente della Campania, che ha impiegato 15 anni per essere assolto da tutto. Il problema mi sembra evidente.

Di recente è stato poi sollevato il tema della responsabilità dei primi cittadini su atti non direttamente ricollegabili al loro operato. Che idea si è fatto?

Chi oggi si espone in cariche pubbliche rischia di essere messo sotto processo e per questo molto spesso si trova in difficoltà nel dover prendere determinate decisioni. A questo proposito sono interessanti le proposte di modifica al reato di abuso d’ufficio, perché ogni volta che qualcuno esercita un pubblico potere c’è sempre il dubbio che che stia violando una legge, ma così facendo si rischia lo stallo.

Crede che l’interferenza della Magistratura rispetto alla politica sia tale da rendere impossibile una retromarcia o la politica stessa dovrebbe far sentire la sua voce per ristabilire un punto d’equilibrio?

Il nostro modello nasce all’inizio dell’800, dove lo stato era molto più semplice e aveva molti meno compiti. Nel tempo la gestione dello stato è diventata sempre più complicata e la macchina sempre più ponderosa. Fino ad arrivare al rapporto intricato tra Magistratura e politica. Per questo credo che riuscire a tornare indietro sia difficile, basti pensare a quanta difficoltà sta facendo la politica nel tentativo di riformare il Csm. Insomma, non è affatto facile riorganizzare la giustizia rispetto al rapporto con gli altri poteri.

Eppure di riforme della giustizia si sta finalmente discutendo, come dimostrano la riforma de processo penale e quella sul civile della ministra Cartabia. Siamo ancora in tempo per cambiare le cose?

Diciamo che molte delle soluzioni trovate sono state alimentate dagli obblighi che dobbiamo rispettare circa il Pnrr, per avere i fondi dell’Unione europea. Senza dubbio bisogna cercare di sveltire i processi, visto che in Italia ci sono circa cinque milioni di processi l’anno. La riforma Cartabia incide su questo, ma non è sufficiente. Assistiamo a un’iperpenalizzazione, ciò è a un uso indiscriminato del processo penale anche nei casi in cui basterebbero multe serie. Da avvocato dico che il processo civile ha decide e decine di riti differenti e questo non fa altro che alimentare un pasticcio enorme.

Insomma, parola d’ordine semplificare?

Servirebbe una semplificazione seria e profonda. Ma è un problema che di certo non scopriamo oggi. Basti pensare a Dante quando fa dire a Giustiniano «che, per voler del primo amor ch’i’ sento, d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano».

Tornando all’immunità parlamentare, crede si debba recuperare questo istituto nella sua forma iniziale

L’immunità parlamentare è un istituto sacrosanto. Tanto che lo troviamo identico anche nello statuto Albertino. Chi svolge attività politica deve essere certo di non essere perseguito per voti o opinioni espressi nell’esercizio delle sue funzioni. Perché l’agone politico è qualcosa di molto diverso dalla calunnia o l’ingiuria. Negli anni tuttavia è successo che l’autorizzazione a procedere era diventata una sorta di privilegio, vissuto come qualcosa di odioso. Per questo si è eliminata l’autorizzazione a procedere e si è spostato il peso sull’immunità parlamentare. Ma, a trent’anni di distanza, si dice che era meglio il vecchio articolo 68, con l’immunità parlamentare generale e poi sotto l’autorizzazione a procedere.

È d’accordo con questa tesi?

La condivido, perché i costituenti avevano trovato un punto di equilibrio. I processi a Berlusconi, a Renzi e Bassolino, sono processi contro privati cittadini o causati dalla loro attività politica? È di questo che si dovrebbe parlare. Il tema, insomma, è complicato e profondo nel suo insieme.