«Le spinte forcaiole gettano una particolare luce sull’indispensabilità della condanna e della giurisdizione come luogo nel quale si colpiscono gli imputati anche per riparare il danno e le sofferenze patite dalle vittime. Ma le vittime non dovrebbero essere parte del processo: questo eviterebbe molti squilibri». A dirlo, al Dubbio, è Ennio Amodio, penalista e professore emerito di procedura penale all’Università di Milano.

Professore, la giustizia viene sempre più intesa come una forma di risarcimento danni per le vittime dei reati?

Negli ultimi 20 anni è cresciuta molto nella cultura non solo italiana, ma anche europea, la prospettiva della tutela delle vittime del reato. Non che non ci fosse nel passato, ma in sede europea è venuta ad esplodere più prepotentemente perché molti sistemi, in particolare quello di common law inglese, non hanno un retroterra di grande attenzione per le vittime. I messaggi che ci sono giunti dall’Europa hanno enfatizzato il loro ruolo e, parallelamente, nella società civile, si è avvertita una spinta forte verso la loro tutela, quasi che il processo penale dovesse trasformarsi nelle sue impostazioni di fondo ed essere più attento a questo aspetto che non alla posizione degli imputati, di coloro che rischiano la pena nel processo.

È colpa anche di una cristallizzazione dei ruoli: l’imputato è fin da subito colpevole, la vittima non può essere messa in discussione.

Questo può essere collocato nella giusta posizione riprendendo gli atteggiamenti della stampa. Nelle prime battute di un processo e nei suoi momenti culminanti, la stampa assume un'impostazione colpevolista e privilegia l’attenzione per le vittime del reato. Così si genera uno squilibrio che a volte raggiunge degli effetti paradossali, com’è avvenuto nel processo per la tragedia di Viareggio. Lì, addirittura, nel corso del primo grado, i parenti, costituiti in comitati, si erano impegnati a fare apparire nell’aula del processo le immagini delle vittime, quasi che si volesse dire che esse dovevano essere presenti ad ogni sviluppo del processo, per far intendere ai giudici che non si poteva avere un minimo di considerazione o di pietà nei confronti dei responsabili, i quali dovevano essere puniti severamente. Questa è stata una cosa molto pesante e anche innovativa rispetto alle consuetudini del nostro processo penale, perché il più delle volte le prese di posizione delle vittime si formano al di fuori del processo e non entrano nelle aule di giustizia. Qui, invece, sono entrate prepotentemente.

Ciò rischia di condizionare i giudici?

Condizionare probabilmente no, ma gettare una particolare luce sull’indispensabilità della condanna e della giurisdizione come luogo nel quale si colpiscono gli imputati anche per riparare il danno e le sofferenze patite dalle vittime sì. Più i fatti sono eclatanti e suscitano le reazioni da parte delle vittime e le reazioni della stampa, più si incrina la presunzione di innocenza. I magistrati fanno di tutto per resistere, ma sono uomini, uomini di cultura, che vivono nella società e non possono non avvertire i segnali che arrivano da chi ha sofferto e da chi è stato colpito dal reato.

L’esito del processo condiziona anche la fiducia del cittadino nei confronti della giustizia: l’aspettativa è quasi sempre di condanna e un’assoluzione è vista come un “tradimento”.

Questo è un fenomeno che prescinde dall’atteggiamento dei giudici: quando la stampa prende con grande attenzione un certo evento e comunica al pubblico l'esigenza di una risposta pesante e rigorosa in punto di pena nei confronti di un certo reato è chiaro che l’opinione pubblica si aspetta questo e c’è una sorta di delusione quando si arriva ad un’assoluzione che appare come una sorta di tradimento rispetto alle attese che erano state formate dai messaggi della stampa.

La giustizia così non diventa strumento per la vendetta privata?

A questo punto non siamo arrivati e spero che non arriveremo mai, perché la magistratura, nonostante tutto, costituisce un baluardo notevole rispetto a queste spinte. Ma le spinte forcaiole ci sono e non dimentichiamo che sono necessariamente parte dell’ideologia del populismo, che chiede interventi punitivi molto rigorosi indipendentemente dall’accertamento dei fatti: si vuole presto e subito che siano dichiarate delle responsabilità. Il populismo, com’è stato interpretato anche in questo Paese da alcuni movimenti, ha smosso le acque, così che crescesse questa onda colpevolista e si riducessero in qualche misura gli spazi per le garanzie.

Il legislatore spesso agisce sull’onda emotiva dei fatti di cronaca, con lo slogan “mai più”. Qual è il rischio connesso a questo atteggiamento?

Ci sono stati momenti nel passato, ma anche recentemente, di una risposta in sede legislativa rispetto a spinte emotive dettate dall’ideologia della repressione feroce di ogni forma di criminalità. I due poli terminali di questa vicenda, che altera i valori scritti nella nostra Costituzione, sono le risposte della magistratura e quelle del mondo politico, ed è noto - anche per le esperienze degli altri Paesi -, che la politica mira a soddisfare le attese forcaiole dell’opinione pubblica per riuscire poi a governare il sistema penale, facendolo giungere a posizioni arretrate e a tagli e amputazioni delle garanzie, anche al di là di quello che chiede l’opinione pubblica.

È un sistema che si autoalimenta. Come si può intervenire per bloccare questa deriva?

È difficile. Il modo migliore è avere una classe politica sensibile ai valori costituzionali e questo in qualche misura sembra che stia avvenendo: dopo la ventata repressiva legata all’ascesa del populismo, adesso, con la riforma Cartabia, sembra che si possa giungere a contenuti del sistema processuale più orientati verso il garantismo. C’è poi il versante relativo ai giudici, che devono essere consapevoli della delicatezza della loro funzione. Bisogna fare un lavoro di espansione e rafforzamento della cultura garantista, nel quale anche i giuristi devono fare la loro parte, per fare rendere percepibile che la deriva verso la repressione e contenuti non garantisti finisce per deturpare il sistema, portando verso orizzonti che erano stati superati.

L’equilibrio del processo è alterato dalla presenza delle parti civili. Come si può risolvere il problema?

Una riforma veramente sostanziale, che sto patrocinando da un po’ di tempo, è quella dell’abolizione della parte civile. In un sistema accusatorio, come quello varato con il codice del 1988, non ha più senso la parte civile, che è nata in Francia in un sistema processuale di marca inquisitoria. Ciò che si può fare, ed io come componente della Commissione ministeriale che ha redatto il codice del 1988 avevo cercato già di realizzare, è la meta di un ruolo della vittima che non acquista la qualità di parte, ma si pone accanto al pm e fornisce allo stesso tutto il supporto che può essere dato al fine di portare avanti l’accusa. Si tratta di togliere alla vittima il ruolo di parte civile e farla diventare, com'è per esempio in Germania, un accusatore adesivo. Questo spegnerebbe molti degli ardori, perché gli ardori poi, che costituiscono degli eccessi per gli equilibri del processo penale, sono legati sostanzialmente a finalità patrimoniali.

Ha menzionato spesso la stampa: che ruolo gioca e che ruolo dovrebbe giocare?

Sul tema ho scritto un libro, intitolato “Estetica del processo penale”. La stampa è sostanzialmente colpevolista e continuerà ad esserlo, in questo Paese, perché la normativa varata in sede politica ha sempre una grande attenzione a non spegnere la voce della stampa. Il che è molto meritorio, ma nel settore della giustizia penale bisogna costruire dei confini per la costruzione della notizia, la sua divulgazione e i contenuti che non possono essere tali da creare un’invadenza rispetto ai compiti che spettano alla magistratura. Ad esempio io sostengo che dovrebbe essere vietata la pubblicazione delle ordinanze cautelari del gip, perché queste contengono tutta la trama del processo e schiacciano l’indagato sotto una quantità di indizi, risultanze di intercettazioni e perquisizioni.

Il diritto di cronaca dovrebbe partire dal processo?

Il dibattito è antico. E i giornalisti non vogliono fare cronaca nel dibattimento, per la semplice ragione che è molto più incisivo il messaggio che possono mandare all’opinione pubblica andando a pescare le notizie dalle indagini. È una scelta che dovrebbe essere imposta dal sistema.