La gestione della pandemia da coronavirus ha provocato delle lacerazioni nel sistema delle garanzie costituzionali. Su questo non possono esserci dubbi. La limitazione delle libertà fondamentali richiede sempre una legge e, in molti casi, anche la pronuncia di un giudice ( ad esempio, sulla libertà personale). La base giuridica originaria per le limitazioni imposte dal governo è data dalla combinazione di un decreto legge e la legge sulla protezione civile. È una base troppo debole per reggere il peso di violazioni tanto pesanti.

Con il decreto di febbraio, quello delle “zone rosse”, si autorizza il governo ad adottare ogni ulteriore misura necessaria per combattere la pandemia. Una previsione troppo generica, che relega il Parlamento in una funzione di puro spettatore.

La lista dei diritti costituzionali vulnerati è molto lunga. Si parte dal caso più appariscente: la libertà di circolazione e soggiorno. La Costituzione, inoltre, vieta espressamente alle Regioni di limitare la mobilità interregionale. Ma una volta creato il vulnus da parte del Governo, non è stato più possibile frenare i cosiddetti “governatori”. Inoltre, la previsione di un divieto assoluto di mobilità per determinate categorie di persone ( i malati di corona virus, ad esempio), porta alla violazione anche del principio della libertà personale: in pratica si mettono le persone agli arresti domiciliari. E in questo caso non basta una legge, ma ci vuole la pronuncia di un giudice ( è un principio che risale, come minimo, alla Magna Charta del 1215).

Ma poi a ben vedere, la sola richiesta di motivare l’uscita di casa comprime quella libertà. Sono stati, poi, violati la libertà di riunione e il diritto di associazione, che non possono essere esercitati né praticati senza la libertà di movimento. E che dire, infine, della libertà di culto? Ai Testimoni di Geova è stato negato il “porta a porta”, che è un elemento essenziale della loro religione, mentre ai cattolici è stato proibito di celebrare l’Eucaristia, che, come la maggioranza degli italiani sa, non è un elemento aggiuntivo, ma costitutivo della stessa Chiesa. A quest’ultimo proposito, siamo di fronte a un’aperta violazione non solo della Costituzione, ma anche dei patti lateranensi. Si potrebbe continuare con la sospensione delle attività lavorative- educative nelle carceri, con conseguente vulnus del principio della rieducazione, i diritti educativi e culturali o a quelli di libera iniziativa economica.

Si poteva fare meglio? Sicuramente sì. Si poteva evitare di comprimere i diritti fondamentali? Sicuramente no. Va dato atto al Governo di non avere avuto di fronte a sé molte opzioni e soprattutto di avere avuto poco tempo a disposizione, di fronte a una catastrofe totalmente inedita per dimensioni e caratteristiche letali.

Gli strumenti di cui dispone l’Esecutivo sono pochi e alquanto inadeguati. Lo strumento principale è quello del decreto legge, logorato dagli abusi che si sono perpetrati nel tempo. Con successo, lo si è messo in campo per combattere la mafia, ma lo si è anche utilizzato troppo spesso per rispondere a ondate emotive della pubblica opinione o semplicemente per scansare nell’immediato la dialettica parlamentare. In certi periodi, è stata superata la media di due decreti al mese. L’abuso è stato probabilmente anche favorito dal troppo ampio spettro semantico che compete all’espressione «in casi straordinari di necessità e di urgenza». A ciò si aggiunga il fatto che il governo adotta il decreto «sotto la sua responsabilità». Tutto ciò può determinare nell’Esecutivo condotte contraddittorie, che vanno dall’estrema spregiudicatezza a una prudenza esasperata, che si riflette a volte nell’ambiguità e farraginosità dei testi partoriti da Palazzo Chigi.

In questi mesi abbiamo sicuramente scontato l’assenza di una disciplina organica e coerente, di rango costituzionale, per la gestione dello stato di eccezione. Tale disciplina è contenuta nelle Costituzioni di altre democrazie europee, come la Francia, la Germania o la Spagna. Se ne parlò anche alla Costituente della Repubblica, ma poi la discussione si spense, senza un motivo apparente. Forse perché la memoria del fascismo era troppo viva e si temeva un uso a fini autoritari dello stato di eccezione.

Ma forse ora è venuto il momento di colmare quella lacuna. Di questo parleremo al Convegno che si apre oggi sui canali della UNINT, intitolato ' Lo stato e l'eccezione dopo la pandemia. Le conseguenze globali della pandemia di COVID- 19 sui rapporti tra i pubblici poteri, analizzate nello specchio italiano'. È un convegno di costituzionalisti e comparatisti, al quale parteciperanno, però, anche esperti di gestione delle emergenze, come Guido Bertolaso, che ci spiegheranno qual è la “posta in gioco” quando si affronta una catastrofe naturale. Il convegno si concluderà con un dibattito tra esponenti politici di diverso orientamento, per capire se ci sono e quali sono le proposte in campo. Anche perché potrebbe essere l’inizio del cammino verso quella nuova Costituzione di cui da decenni si discute.

La “costituente”, presuppone una catastrophè, vale a dire uno sconvolgimento terribile e irripetibile. La Quinta Repubblica francese nasce nel 1958 dalla Guerra d’Algeria. Forse la pandemia può essere la nostra Guerra d’Algeria.

* Professore ordinario di Diritto pubblico comparato. Preside della Facoltà di Scienze politiche. Direttore del Corso di Laurea magistrale in Investigazione, Criminalità e Sicurezza internazionale