Il tema centrale del dibattito sul ddl di riforma del processo penale, in discussione al Senato, pare sia diventato quello della previsione di un termine entro il quale il Pubblico Ministero, successivamente alla conclusione delle indagini preliminari, deve assumere le proprie determinazioni in ordine alla formulazione della richiesta di rinvio a giudizio o di archiviazione. Detto disegno di legge, introducendo un termine la cui inosservanza è "sanzionata" con la previsione dell'avocazione del procedimento da parte del Procuratore Generale, pare abbia toccato un nervo scoperto, tanto da suscitare la piccata reazione da parte delle componenti associative della Magistratura.Sul tema abbiamo già da tempo sostenuto con convinzione ("Processo penale e mass media" di Antonio Mazzone e Nicolino Zaffina, su La Previdenza Forense n. 3/2015) che l'avocazione da parte del Procuratore Generale non ha controindicazioni, perché consentirebbe di contemperare l'esigenza di non produrre conseguenze invalidanti per le indagini (in caso di inattività di un pubblico ministero) con quella d'imporre che un procedimento non resti "sospeso" sine die.Si tratta, quindi, di introdurre una regola coerente sia con il principio di ragionevole durata del processo, sia con l'esigenza di evitare il decorso del termine di prescrizione del reato.Del resto le attività attinenti alla formulazione della richiesta di rinvio a giudizio o della richiesta di archiviazione, una volta concluse le indagini preliminari, non presentano alcun profilo di difficoltà, perché la prima non deve essere motivata, mentre la seconda può essere motivata o meno a seconda della scelta del Pubblico Ministero procedente.Sotto altro profilo si evidenzia come il disegno di legge preveda, per tali richieste, termini molto ampi "dopo" la conclusione delle indagini preliminari: tre mesi per la gran parte dei reati (prorogabile fino a sei mesi per le indagini più complesse), un anno per i reati di maggiore allarme sociale, come ad esempio quelli di mafia e di terrorismo. E dunque, dato che per la redazione della motivazione di una sentenza, anche la più complessa, è previsto un termine massimo di novanta giorni, mentre per la redazione dei motivi di impugnazione, anche i più impegnativi, è previsto un termine massimo di quarantacinque giorni, pare lecito chiedersi come si possa aver timore della previsione di un termine di tre/sei mesi o, addirittura, di un anno, per decidere se richiedere l'archiviazione di una notitia criminis o il rinvio a giudizio di un imputato.Sul punto la riforma all'esame del Senato pare assai logica e coerente e risponde, altresì, all'esigenza che le attività processuali, come tutte le attività pubbliche, siano laddove possibile vincolate; ciò al fine di evitare spazi di discrezionalità che, purtroppo, ben possono comportare ingiustificate disparità di trattamento.L'Avvocatura, per sua doverosa funzione, non può che stare dalla parte dei cittadini: nessun dubbio, quindi, sulla correttezza della norma.Tocca quindi alla politica decidere e non si tratta di "accontentare" una categoria piuttosto che un'altra ma, piuttosto, di stabilire che tipo di processo penale si vuole: un processo velocizzato, con l'eliminazione di ingiustificati tempi morti e che, nel rispetto di tutte le garanzie necessarie, pervenga in tempi rapidi alla sua conclusione funzionale, consistente nello stabilire se un imputato sia o meno colpevole o, invece, ancora un processo penale fine a se stesso, che, proprio nella sua indefinita e ingiustificata durata nel tempo, soddisfi la propria funzione.L'opinione pubblica e la "politica" devono avere chiaro che è questa l'alternativa, questa la posta in gioco, questa la scelta tra due modelli di giustizia.*Avvocato - Consigliere di Amministrazione Cassa Forense