Per Federico Moccia il segreto è la semplicità: nell’amore, nella scrittura, nello sguardo sulla vita. Il suo nuovo libro, Semplicemente amami ( Editrice Nord), dedicato al padre, il celebre sceneggiatore Pipolo, dà seguito alla turbolenta storia d’amore tra la pianista Sofia e il ricchissimo Tancredi iniziata con il romanzo L’uomo che non voleva amare.

Sofia è in Russia da alcuni mesi, lontana dal marito Andrea e dall’uomo che ha messo in crisi le sue certezze, Tancredi, ritiratosi sulle isole Fiji. L’eccezionale musicista decide di tornare a Roma dal marito per riprendere le fila della sua vita. Tutto sembra tendere alla linearità, ma ovviamente l’agire umano complica i percorsi per raggiungere gli equilibri più naturali.

Abbiamo chiesto all’autore, che con Tre metri sopra il cielo e i successivi romanzi ha conquistato milioni di lettori, se siamo noi esseri umani a rendere difficile l’amore.

«Secondo me l’amore si diverte. L’uomo e la donna devono districarsi in mezzo a complessi tragitti, quasi da labirinto, per poter trovare la persona desiderata e apparentemente più adatta alla proiezione personale di questo sentimento. Ciò che noi vediamo nell’altro ci attira, ci incuriosisce e, a volte, riesce ad appagarci, a essere effettivamente in corrispondenza amorosa con quello che cercavamo. Insomma, è l’uomo che complica, l’amore di per sé sarebbe forse più semplice».

Il fatto minore, la piccola casualità possono cambiare direzione alla vita, come sperimenta la protagonista Sofia. Qual è allora il ruolo della volontà?

A me piaceva molto che Sofia facesse una scelta: vorrebbe tornare indietro, ricostruire il rapporto con suo marito. Il suo, come quello di Tancredi, è un ritorno alla semplicità: amare ed essere amati. Il problema è che, a volte, la nostra volontà, per quanto possa mettersi in gioco, ha a che fare con un’altra realtà. Tra due persone la volontà deve essere armonica, deve andare nella stessa direzione. Quindi può anche non servire, perché bisogna vedere se non ci sia una distonia, se non si crei, per rimanere in tema musicale, un contraccento che impedisca la bellezza della ricerca, attraverso la volontà, della storia d’amore sognata.

Il rapporto tra Sofia e Andrea si basa sulla linearità, quello con Tancredi sul contrasto

Volevo costruire, come nella prima parte, “L’uomo che non voleva amare”, due personaggi, Tancredi e Sofia, opposti in tutti i modi: una è di Ispica, piccolo paese siciliano, l’altro piemontese, lui ha un nome lungo, frastagliato nel suono, spigoloso, lei corto, arrotondato, morbido. Ho fatto scelte mirate. Tancredi è una persona abituata ad avere tutto, a determinare la sua vita, a organizzare, a essere pratico, e si scontra con la possibilità di non avere lei, per quanto possa sembrargli un’assurdità per come è solito ragionare, in maniera erronea, sulle donne. Sofia lo porta a cambiare la sua struttura e anzi ad abbandonare il suo disperato tentativo di avere sotto controllo tutto. Lei vorrebbe che lui imparasse a relazionarsi nella maniera più semplice e naturale, non disponendo tutto affinché meravigli.

Tancredi ha anche tratti perturbanti, se si pensa a come tiene sotto controllo la vita di Sofia. Un tema molto attuale quello della violazione del privato…

Mi ha colpito quel film con Will Smith e Gene Hackman, Nemico pubblico, dove tutto veniva controllato attraverso un sistema di telecamere. Volevo far capire come Sofia si senta inibita, anche nelle sue scelte, quando capisce che tutto nasce da questa osservazione continua, da questo aver scavato, aver voluto sapere fin troppo della sua vita. Questa dinamica, secondo me, è la più innaturale in un rapporto. A un certo punto Sofia chiede a Tancredi: «Dimmi se c’è ancora qualcosa che non so», perché capisce quanto sia assurdo che le siano mancati dei pezzi della sua vita noti a un’altra persona.

Perché Tancredi controlla ma quasi mai agisce?

Non vuole essere colui che determina. Accetta che gli eventi possano andare nel modo più naturale. Gregorio, il suo braccio destro, gli chiede se voglia far scoprire a Sofia quel che non sa, su sua madre, su suo marito Andrea. Tancredi però risponde di voler sapere ma non condizionare.

I personaggi hanno intorno ai 40 anni. Forse crescono insieme a molti suoi lettori?

Io stesso sento di crescere e mi viene voglia di affrontare età diverse nel raccontare qualcosa che vedrebbe inevitabilmente dinamiche differenti in altri momenti della vita. Ho voluto, già nel 2011, affrontare questa storia così diversa di Tancredi, Sofia e di Andrea. In realtà, però, sia questo romanzo sia i precedenti, attraversano le età, possono essere letti indipendentemente dall’effettivo dato anagrafico del lettore, perché raccontano famiglie, spaccati, pezzi di vita, che vengono letti e osservati a seconda della sensibilità del lettore.

In che modo?

Io credo che ognuno, a modo suo, abbia potuto ricordare alcune esperienze presenti in Tre metri sopra il cielo, in Ho voglia di te e nell’ultimo Tre volte te, che hanno riguardato un percorso partito dal liceo e sfociato nel mondo del lavoro, della famiglia, dei figli. Con questo romanzo siamo entrati in un altro momento. Siamo di fronte a un uomo e a una donna di una certa età, con la loro vita, la loro indipendenza. Mi piaceva che chi mi aveva seguito sin dai primi romanzi potesse trovare all’interno di questa storia qualcosa che lo coin- volgesse e lo colpisse.

Il tradimento e l’importanza della sincerità, due temi molto legati. Sono i motori della storia?

Sì, ma allo stesso tempo io ho voluto prendere le parti di Sofia, portare il mio centro di scrittore e osservatore nella persona femminile, in una donna che, dopo aver abbandonato per un periodo il tetto coniugale ed essere andata per quasi otto mesi in Russia decide di tornare e riprendere in mano la sua vita, attraverso la soluzione più normale e semplice: rimettersi con suo marito. Dentro questa cornice, ho voluto sottolineare quanto oggi a volte siamo sorpresi rispetto a un messaggio, a una scoperta, a come la nostra vita possa avere improvvisamente un’altra luce e le situazioni si possano aggiustare o guastare con incredibile velocità. Sofia ha una disperata voglia di chiarezza.

Qualcosa l’ha ispirata?

Sofia si accorge che tutto intorno a lei è diverso, come in quel bellissimo film di Kubrick, Eyes Wide Shut, quando casualmente Tom Cruise per la prima volta esce in un orario differente e tutto quello che aveva visto con un’ottica di un certo tipo assume altre luci e altre verità. Quella donna che gli sembrava andasse a fare chissà cosa in realtà era una prostituta che finiva il suo lavoro. Anche il rapporto con la moglie cambia dopo che lei gli confida di un uomo conosciuto, un soldato, da cui era stata talmente colpita che se quel giorno le avesse detto «Vieni via con me!», lei sarebbe andata. Tutte queste rivelazioni lo lasciano sbigottito e gli fanno cambiare il suo equilibrio. Questo mi è piaciuto riproporlo nella vita anche fin troppo costruita e da perfezionista di Sofia. Secondo me, il “Semplicemente amami” indica quasi una resa, come se lei o lui dicessero basta a tutto quello che sta accadendo: «Accettiamo questo nostro desiderio e amiamoci».

Ci sono aspetti che forse alcune donne non apprezzerebbero in Sofia. Ha avuto reazioni in questo senso?

A me piace molto che lettori e lettrici mi scrivano, spesso attraverso i nostri social, che danno la possibilità di rispondere. Ho visto che loro si sono immedesimate, avevano aspettato questo seguito e hanno detto che ne è valsa la pena, perché hanno giudicato questo romanzo sorprendente. Credo che loro amino essere sorprese. Questi due romanzi su Sofia e Tancredi scavano nell’analisi che i singoli personaggi fanno dentro di loro mentre cercano di capire cosa vogliano dalla vita. Le lettrici non hanno fatto osservazioni come quelle che lei mi indica. A loro piace l’idea di essere conquistate da un uomo che non predilige la facilità di poter dire «guarda tuo marito ti tradisce», ma che desidera una donna perché effettivamente lei lo ami, raggiunga la soddisfazione, la voglia, la pienezza, e non si accontenti di un ripiego. Tancredi si comporta da cavaliere nel buio.

L’amore di Sofia per il pianoforte è descritto con grande perizia. Qual è il rapporto tra Federico Moccia e la musica?

Nella mia infanzia c’erano le tesserine dell’Agimus, un’associazione per i giovani e la musica alla quale ci si poteva iscrivere a scuola. Io andai perché mi piaceva una ragazza, altrimenti non avrei avuto una spinta ad ascoltare la musica classica. Quando arrivai lì, però, mi sorprese il sentir vibrare in maniera diversa, rispetto ad alcuni brani, la mia capacità emotiva. Riconosco un incredibile potere alla musica classica, capace di evocare in noi qualcosa di più alto. Mi piacerebbe moltissimo fare un film moderno all’interno del quale ci fosse questo tipo di musica, che ti permette di scoprire le tue corde più nascoste. Credo sia veramente un percorso da far fare, anche ai giovani.

Lei ha un’incredibile cura anche nel raccontare il cibo. Come mai sono così importanti le scene conviviali nel suo romanzo?

Molte cose nascono da ciò che vediamo e ci colpisce: per esempio “Il pranzo di Babette”, bellissimo film all’interno del quale si riesce, con una grande cena, a dare la possibilità a persone contrapposte, divise e in litigio, di riappacificarsi attraverso il cibo. Molto accade a tavola: le riunioni, la chiacchierata, gli accordi, le importanti strategie. Mi piace che alcune scene del libro siano create in maniera da poter far scoprire o semplicemente rievocare a chi sta leggendo i profumi, i sapori di quel tipo di pasta alla carbonara e del resto che è possibile trovare nella zona del Rione Monti, con quelle stradine e quel tipo di struttura, parte di una Roma diversa rispetto a tanti altri spaccati da me raccontati nei libri precedenti. Mi piace che ogni romanzo sia un cammino nuovo sia da un punto di vista musicale che strutturale e anche da un punto di vista culinario.

«A Pipolo che mi ha fatto un bellissimo regalo» scrive nella dedica. Che cosa le ha regalato?

Credo che Pipolo mi abbia regalato lo sguardo: me lo ha passato piano piano, con fatica, anche rispetto a quello che poteva essere, soprattutto da ragazzo, il mio carattere. Lo sguardo per affrontare la vita, ironizzare, ridere e non addolorarsi, per affrontare la critica più feroce, ma anche il successo più grande, sempre con il giusto, adeguato distacco. Mi ha donato un amore nei confronti della vita in generale, la capacità di cogliere in tutte le cose, anche nelle più semplici, l’aspetto gioioso, di vivere guardando la bellezza di tutto ciò che ci circonda senza dover aspettare chissà cosa.

Che uomo era suo padre?

Era una persona molto simpatica, divertente, giovane nell’animo e nei modi, sempre curioso. A 74 anni aveva iniziato a lavorare al computer: teoricamente non voleva accettarlo, invece poi ne è stato conquistato, cosa della quale vado fiero, perché sapevo gli sarebbe piaciuto, anzi sarebbe diventato un suo modo di catalogare, viaggiare, informarsi, divertirsi, e così è stato. Non ci siamo mai persi di vista, abbiamo camminato insieme, vicini. È stato un amico, un collega, con tutto il mio rispetto e la considerazione. Ogni tanto gli dicevo: «Ma perché non facciamo una cosa insieme?».

E lui?

Ridendo mi rispondeva: «A Federi’ ho scritto 124 film, ma che mi vuoi far lavorare ancora?». Giustamente. Aveva scritto 124 film insieme a Castellano. Dopo i primi grandi successi da sceneggiatori, c’è stato un periodo in cui, in Italia, si produceva tantissimo. Marinai, donne e guai, i lungometraggi con Totò, con Tognazzi, Le ore dell’amore, Il federale, La voglia matta: alcuni anni sono stati pieni di loro film, lui mi raccontava che in quel periodo gli sceneggiatori in Italia erano 16. Nell’anno in cui io nascevo sono stati realizzati e sono usciti addirittura sette film scritti da loro. Oggi è il contrario, riesci a fare un film ogni sette anni.

Il cinema, la sala Azzurro Scipioni, i riferimenti filmici. Quanto è importante la settima arte nella sua scrittura?

Io credo che il cinema sia stato una guida, un modo di scrivere. Mi ha permesso di conquistare una parte giovanile di lettori che ha sorpreso i critici e gli stessi editori, quando hanno scoperto, nel 2004, attraverso il successo duraturo di Tre metri sopra il cielo, con tre anni in cima alle classifiche, che anche i giovani leggono. Secondo me quella è stata la sorpresa più grande, perché oltretutto quel romanzo aveva un modo di raccontare molto cinematografico. La cosa migliore è che tu, leggendo, non debba aggrottare le sopracciglia e tornare indietro per cercare di capire che cosa volesse dire lo scrittore e che ti dimentichi quasi di leggere.

Come?

Tu procedi e piano piano sei dentro quella scena, senti quella musica, ti accorgi di quel sorriso, di quel momento, della mano che tocca l’altra mano, della fuga, di ciò che accade intorno. Nei commenti i lettori osservano sempre che non abbandonano il libro e vanno avanti, scena dopo scena, perché vogliono sapere cosa accada: ogni capitolo si chiude lasciandoti il dubbio di quello che potrebbe essere e allora decidi di proseguire. Secondo me è una voglia naturale: raccontare creando la curiosità, come ti capita quando stai raccontando qualcosa senza scrivere.

Ora è su Netflix Summertime, liberamente ispirata a Tre metri sopra il cielo. Pensa che nasceranno un film o una serie anche da questo libro e dal precedente?

Mi piacerebbe molto, perché L’uomo che non voleva amare e Semplicemente amami sono perfetti per una linea più adulta, con la curiosità, la dinamica delle contrapposizioni, dove prenderebbe spazio la musica classica. Servirebbe grande ricercatezza, perché ci vuole la qualità, la bellezza delle scene, del viaggiare di questi protagonisti. Quando racconti nelle pagine è molto semplice, una realizzazione cinematografica è più complessa e sicuramente più costosa, ma, con un bell’investimento, potrebbe nascerne un’ottima serie.

Dopo il successo dei primi romanzi, c’è stato un fisiologico calo di lettori. Come vive uno scrittore da milioni di copie le alterne vicende del successo?

Io credo faccia parte inevitabilmente dello scorrere dei momenti e del piacere stesso dello scrivere. Ho sempre pensato a una storia da raccontare, così come è questa. L’uomo che non voleva amare è stato pubblicato in diversi Paesi, e molti, in tutto il latinoamerica, hanno aspettato questo seguito perché avevano voglia di leggere il continuo della storia di Tancredi e Sofia. Il successo è legato all’emozione, alla commozione, ma anche alla casualità.

Alla casualità?

Tre metri sopra il cielo è un libro che non volevano pubblicare, è uscito dopo dodici anni ed è stato un successo clamoroso che mi ha permesso di vendere il seguito con due milioni di copie. Devi accettare il fatto che sarebbe benissimo potuto non essere, quindi, come insegna Pipolo, sii felice di quel successo e non pensare a quello che dovresti ottenere, ma lavora in maniera serena, raccontando la storia migliore che hai. Anche perché è inutile affannarsi. Quando ti chiedono: «Ma come si fa ad avere successo?». Non c’è una risposta, altrimenti tutti lo avrebbero, se ci fosse una formula magica e precisa. Secondo me fa parte del successo l’inventare nuove storie e personaggi che possano incontrare la curiosità e la passione dei lettori, anche se il mondo, con l’avvento dei telefonini, dei social e di tutto quello che prima esisteva in forma ridottissima, ha perso naturalmente, purtroppo, nell’editoria, i numeri del passato.