“Patria o muerte. Venceremos”: non il grido di battaglia di qualche formazione ultranazionalista iberica o latino- americana. Era la formula comunemente usata per chiudere tutte le sue lettere e i messaggi dal massimo idolo politico del lontano ‘ 68, Ernesto “Che” Guevara. Nell’Unione sovietica, ma anche nella Russia di Putin, la definizione per noi comune “Seconda Guerra Mondiale” è poco conosciuta e ancor meno adoperata: quella contro il nazismo è la “Grande Guerra Patriottica”. Casomai qualcuno, nelle nebbie della memoria lontana, dovesse dimenticare che la chiamata alle armi in difesa della Patria Socialista, dopo l’avvio dell’Operazione Barbarossa, l’invasione tedesca, mobilitò con il richiamo alla Patria più che con quello al socialismo.

Ha fatto molto scandalo un articolo di Stefano Fassina, ex ministro nel governo Renzi, ex Pd, oggi deputato di LeU, nel quale venivano rivendicate parole che nella sinistra non avevano quasi più corso almeno dagli anni settanta: “Patria” e Nazione”. Fassina, che è un sovranista di sinistra, merce rara in Italia ma molto meno nel resto d’Europa, sottolinea la continuità con la tradizione storica del Movimento operaio italiano e del Pci. Cita un noto brano di Togliatti del 1945, da un articolo uscito su Rinascita: ' Assai spesso i nemici dei lavoratori tentano di contestare il patriottismo dei comunisti e dei socialisti, invocando il loro internazionalismo e presentandolo come una manifestazione di cosmopolitismo, di indifferenza e di disprezzo per la patria. Anche questa è una calunnia'. Ricorda che nel simbolo del Partito la bandiera rossa con la falce e il martello si accompagnava al tricolore, pare per insistenza con Renato Guttuso ( che disegnò quel simbolo) dello stesso Togliatti. Segnala che nella Costituzione italiana un solo dovere è definito addirittura “sacro”, quello di cui si parla nell’art. 52: “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”.

Per il Pci, durante la Resistenza e dopo, tra patriottismo e lotta per l’emancipazione dei lavoratori non solo non c’era contraddizione ma si trattava al contrario quasi di sinonimi. Fino agli anni ‘ 80 e all’uscita del libro di Claudio Pavone sulla Resistenza Una guerra civile, la storiografia comunista aveva sempre rifiutato, e anche con sdegno, l’interpretazione della Resistenza come “guerra civile”. Era la “Guerra di Liberazione Nazionale” e dubitarne significava esporsi al sospetto d’eresia. Del resto il giornale dell’Anpi si chiamava, e ancora si chiama Patria Indipendente. Nel clima della guerra fredda, nel 1957, il Pci votò contro la ratifica dell’oggi sempre osannato Trattato di Roma, quello che istituziva la Cee, la Comunità economica europea, detta abitualmente all’epoca Mec, Mercato comune europeo. “Il Mec – spiegava allora la scelta del partito il relatore Giuseppe Berti – è la forma sovranazionale che assume nell’Europa occidentale il capitale monopolistico”. Solo negli anni tra il 1979 e il 1984, con l’adesione di Altiero Spinelli al Pci e con una serie di spostamenti direttamente ispirati dal segretario Berlinguer il Pci avrebbe capovolto la sua posizione trasformando- si in partito compiutamente europeista.

Non si tratta solo dell’ennesima specificità del caso italiano. Tanto più negli anni della decolonizzazione, socialismo e patriottismo formavano davvero una coppia inscindibile. Ho Chi Minh spiegava così la straordinaria capacità del popolo vietnamita di resistere prima alla Francia e poi agli stessi Stati Uniti: “La nostra gente è ispirata da un ardente patriottismo che è una nostra irrinunciabile tradizione e la nostra più grande forza”. Il presidente Mao concordava: “Un comunista, per essere internazionalista, deve per forza essere un patriota”. L’elenco di dichiarzioni sulla medesima lunghezza d’onda, da Bela Kun a Thomas Sankara, sarebbe in realtà infinito. A lungo l’internazionalismo è stato interpretato a sinistra come rifiuto del tantativo delle singole nazioni di sottometterne altre, non delle differenze e delle specificità nazionali. Il citato articolo di Togliatti, del resto, mirava proprio a negare l’accusa di “cosmopolitismo” rivolta ai comunisti.

Fassina prova dunque a recuperare una tradizione della sinistra storica a lungo considerata archiviata una volta per tutte ma che inevitabilmente torna in campo in una fase storica segnata proprio dalla reazione, non solo in Europa ma in Europa più che altrove, a un superamento degli Stati nazionali che non ha mantenuto nessuna delle sue promesse. Non è certo un caso se due delle principali formazioni di sinistra in Europa, Podemos in Spagna e France Insoumise in Francia, ricorrono senza esitare a suggestioni patriottiche, sia pur declinate in senso molto diverso e spesso opposto a quello del sovranismo di destra di cui è principale esponente in Europa il premier ungherese Viktor Orban.

Naturalmente c’è una distanza incommensurabile tra l’idea compiutamente reazionaria di patria che sbandiera l’ungherese e quella dello spagnolo Iglesias, che qualche anno fa spiegava: “La patria non è una spilletta sulla giacca, non è un braccialetto, la patria è quella comunità che assicura che si proteggano tutti i cittadini, che rispetta le diversità nazionali, che assicura che tutti i bambini, qualunque sia il colore della loro pelle, vadano puliti e ben vestiti a una scuola pubblica, la patria è quella comunità che assicura che i malati vengano assistiti nei migliori ospedali con le migliori medicine, la patria è quella comunità che ci permette di sognare un paese migliore”. Tuttavia un punto in comune c’è, e vistoso: quel nodo della sovranità nazionale che sembra essere la causa della crisi dell’Unione europea e invece di quella crisi è il prodotto.