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Il giornalista e scrittore Alessandro Barbano
«Dobbiamo interrogarci sull’uso mediatico delle indagini. E prima ancora, su una gerarchia di valori e quindi di notizie: cosa sconvolge di più? Il fatto che un politico di centrodestra sarebbe un consumatore di stupefacenti o la clamorosa violazione della sua privacy realizzata dai media che attingono all’ordinanza di un giudice?». Alessandro Barbano, da giornalista e scrittore, concentra da tempo la propria attenzione sullo slittamento del diritto penale. Lo fa anche a proposito dell’indagine che, pur senza accusarlo di alcun reato, colpisce in modo pesantissimo Gianfranco Miccichè, deputato all’Assemblea siciliana che, nella precedente legislatura, ha presieduto. «Un grande quotidiano liberale dovrebbe chiedersi cosa, oggi, è notizia: l’uso personale di droga, contenuto fra le carte di un’inchiesta, o il fatto che, in virtù di quell’inchiesta, si devasta la sfera personale di un individuo?».
Partiamo dalle conseguenze che il caso Miccichè dovrebbe spingerci a trarre: l’inchiesta di una Procura non dovrebbe diventare, sui giornali, un attacco alla presunta immoralità di politici estranei ai reati. Non è forse questa la sfida più importante?
A me sembra che un caso come quello di Miccichè segnali la distanza della nostra giustizia da quel principio costituzionale di proporzionalità che dovrebbe regolare gli strumenti d’indagine, innanzitutto. D’altronde, se in un’indagine emerge tale distanza, non c’è illecito disciplinare al quale ricondurla. Si tratta di scelte che, sul piano formale, non possono essere contestate ad alcun magistrato. Ma è anche per questo che la giustizia penale, da mezzo per accertare i reati, sembra essere diventata un’arma per sancire la presunta pericolosità dei soggetti.
Segnalare un politico, non indagato, come consumatore di droghe diventa cioè un’implicita denuncia di pericolosità, di inaffidabilità, di quel politico?
Partiamo da un dato: nelle indagini che mortificano pubblicamente i politici, come nei fatti è avvenuto con Miccichè, si rileva non tanto una faziosità ideologica quanto una guerra di potere tra poteri. C’entra poco, cioè, l’eventuale orientamento che quel magistrato ha in termini, magari, di corrente. Si realizza però, nei fatti, un altro tipo di contesa fra poteri: la magistratura, ripeto in modo sostanziale e al di là della legittimità formale degli atti, afferma il proprio primato nel controllo sociale rispetto alla politica. E se ritiene di aver individuato politici che esercitano quel controllo in modo inadeguato, si sente legittimata a esercitare a propria volta quel controllo nei confronti di chi è stato eletto.
Come avviene questo “over rule”?
Con la mortificazione pubblica, appunto: in virtù di notizie, provenienti dalle indagini, che attesterebbero la pusillanimità o l’immoralità di chi ha un ruolo politico. Sempre per parlare in termini sostanziali, l’eventuale condanna, l’accertamento processuale, passano in secondo piano: il risultato si raggiunge con il processo mediatico. Di solito nelle indagini di spaccio si sa chi traffica droga, quasi mai il nome di chi la compra.
Il punto è come Miccichè, non indagato, finisce in un’ordinanza cautelare.
È la questione dirimente. In Italia manca una norma che definisca i criteri per delimitare la pertinenza probatoria dei fatti acquisiti in un’inchiesta. Né la Cassazione ha mai compiutamente fatto chiarezza a riguardo sul piano ermeneutico. Il pm può stabilire, soggettivamente, che determinate questioni hanno rilevanza ai fini della prova in quanto utili a definire il contesto. E così il criterio di pertinenza si gonfia all’inverosimile, fino a poter contenere tutto.
Con la riforma Nordio cambia poco.
Si interviene solo sulle intercettazioni e sull’attribuzione al gip di individuare i brani che, in quanto penalmente rilevanti, sono poi, di conseguenza, anche pubblicabili. Ma è chiaro che l’unica riforma efficace, da questo punto di vista, consisterebbe nella limitazione del contenuto degli atti, ordinanze cautelari comprese, a quanto è pertinente a individuare la colpevolezza.
Il presidente dei penalisti, Gian Domenico Caiazza, propone di vincolare i gip a sostituire con degli omissis i nomi dei terzi estranei al reato. È un’ipotesi che, se realizzata, potrebbe avere un forte valore simbolico: tutelare la privacy della persona, a maggior ragione se estranea ai reati, diventerebbe importante al punto che l’ordinanza è piena di nomi omissati.
Certo, è una delle possibili regole che tradurrebbero l’obbligo di riportare negli atti dei magistrati solo gli elementi che hanno una chiara pertinenza probatoria. Il resto non va utilizzato, tanto più se si tratta di proteggere un terzo estraneo al reato.
E l’estensione del segreto, e quindi dell’impubblicabilità?
E un’ipotesi che a quanto pare Nordio aveva preso in considerazione, ma che è pericolosa da un altro versante: non possiamo eliminare il controllo della stampa sull’esercizio dei pubblici poteri, non possiamo trovarci con una persona indagata per resistenza a pubblico ufficiale e magari scoprire solo a dibattimento che quella persona è stata picchiata dalle forze dell’ordine. Si tratta però di evitare che nelle carte dell’inchiesta finisca di tutto.
D’altra parte chi invoca l’ostensibilità assoluta sostiene che la stampa ha il diritto di raccontare tutto, anche le abitudini personali di Miccichè.
La notiziabilità non coincide in astratto con la pertinenza probatoria, perché il giornalista, in quanto manutentore civile, nell’esercizio del dovere- diritto di cronaca, non si ferma all’illiceità, ma indaga per esempio l’incoerenza politica, e perfino l’immoralità. Tuttavia ha un limite insormontabile nella privacy. Diversi anni addietro una storica decisione di Stefano Rodotà, allora Garante della Privacy, sancì il venir meno della riservatezza per le persone con funzioni pubbliche in virtù della necessità di confrontare i loro comportamenti, ad esempio il fatto di essere clienti di prostitute, con le battaglie politiche, condotte magari per punire chi ricorre alla prostituzione. Credo che a diversi anni di distanza, lo scenario sia talmente cambiato da imporre a tutti scelte differenti. Un politico può proclamare il proibizionismo e allo stesso tempo essere dipendente da droghe: non per questo la sua debolezza merita di essere esposta alla gogna.
In che senso?
Nel senso che in questi ultimi due decenni, l’ampiezza dei diritti e delle libertà civili è cresciuta parallelamente alla tutela della privatezza: oggi la società assume a valore primario l’intangibilità della sfera personale, delle scelte che riguardano l’orientamento sessuale, per esempio, o appunto l’uso di droghe. Ed è assurdo che un primato simile debba valere sempre ma non per i politici, non per i politici la cui sfera intima è violata dai contenuti di un’inchiesta.
Dovrebbe valere anche per Miccichè.
A un giornale di grande tradizione e indiscussa ispirazione liberale chiederei: dov’è davvero la notizia? Nel fatto che Miccichè sembrerebbe essere un consumatore di sostanze stupefacenti o nel fatto che il riflesso mediatico di un’inchiesta ne vulnera fino a quel punto la vita personale? La privacy, le scelte personali, sono diventate, piaccia o no, un bene sacro. Com’è possibile che, quando si tratta di notizie passate dagli atti d’indagine ai giornali, tale valore scompaia, addirittura per chi non è indagato?