Va bene tutto: va bene il rischio di torsione democratica, va bene la paura dello sputtanamento globale perché lo dice il New York Times, e va bene persino il timore di finire nell’orbita putiniana. Insomma, in guerra, in amore e in politica tutto è lecito, ma la pregiudiziale antifascista, a quasi 100 anni esatti dalla marcia su Roma (era il 27 ottobre del 1922 ), per favore lasciamola a casa. Almeno per questa volta. Eppure c’è una parte del fronte del centrosinistra che proprio non ce la fa a non costruire il nemico ideale. Una volta era Silvio Berlusconi. Era lui l’escrescenza democratica, l’eversore che avrebbe trasformato la democrazia in un grande fratello e piegato la giustizia ai suoi singoli interessi. È stata una battaglia lunghissima, finita con la vittoria della santa alleanza tra politica e magistratura che, dopo decenni di “attenzioni giudiziarie”, è riuscita a buttarlo fuori dal Parlamento. Un giorno, forse, capiremo chi erano i veri eversori. Oggi l’uomo nero, anzi, la donna in nero, è Giorgia Meloni. È lei che incarna le paure della sinistra: «Corriamo il pericolo più grave nella storia della Repubblica», ha spiegato, tanto per dirne uno, Carlo De Benedetti ad Aldo Cazzullo. Il motivo: «I toni che usa Meloni sono tecnicamente e inequivocabilmente fascisti. Del resto la sua storia è quella». Ben più convincente la posizione di Sabino Cassese, che ricorda a noi tutti che l’Italia è un paese saldamente democratico e che ha tutti gli anticorpi necessari a sconfiggere eventuali, ma assai improbabili, derive illiberali o non democratiche. Insomma, a ben vedere la paura di Meloni nasconde in realtà una sfiducia latente nei confronti della nostra tenuta democratica, delle nostre istituzioni. E al Nyt, sarebbe facile ricordare che sulla guerra e la fedeltà “atlantica”, Meloni ha avuto un atteggiamento molto meno ambiguo di Lega, 5Stelle e Forza Italia. Certo, lei, Giorgia, una cosina potrebbe farla: potrebbe spegnere quella fiamma alla base del suo simbolo. Aiuterebbe a far tacere molti.