Eccola lì, la nemesi in agguato. Ed è tanto più urticante quanto paradossale: la spinta a rifiutarla è un conato che sale dalle viscere, ma la sua inesorabilità è già leggenda. Così Luigi Di Maio, non all’improvviso ma per il gioco oscuro del destino, si ritrova nella scomoda, anzi scomodissima posizione di essere diventato la volpe a cui in tanti, perfino tra le proprie fila, danno la caccia. Inseguendola fin dentro la tana territoriale più profonda, violandone i più intimi rapporti familiari, scoperchiandone fragilità e limiti. Senza tregua, fino alla resa. E perciò, absit iniuria verbis, si prepara per lui il medesimo trattamento che subì Bettino Craxi: diversissimo da lui, anzi antitetico per spessore leaderistico, statura istituzionale, capacità politica. Alle orecchie del vicepremier pentastellato - per non parlare di quelle del più importante capo socialista italiano, se potesse ancora usarle - il parallelo risulta insolente fino alla contumelia. Eppure, ancora una volta, le leggi della politica scattano inflessibili: finché sei sulla cresta dell’onda il tuo mondo è un profluvio di salamelecchi e genuflessioni. Ma non appena inizia la china discendente nulla viene perdonato, tutto viene scoperchiato e l’affanno diventa la condizione naturale. Fino allo sfinimento. Alla resa.

A guardare i media, a leggere i giornali, ad ascoltare i sussurri delle ultime settimane che si trasformano in boatos nei corridoi del Palazzo, e perfino a compulsare i sondaggi sempre pronti ad essere sfornati, Luigi di Maio è la vittima sacrificale del Nuovo Ordine che Verrà. Quello per cui il suo sodale nella partnership di governo - che parallelamente più cresce quanto l’altro scende: ed anche questo è precetto politico insuperabile - deve adesso rompere l’accordo che consente al MoVimento più pazzo e demagogico della storia tricolore di stare nel cuore del potere, per farlo tornare laddove è venuto, nelle piazze dei Vaffa e nelle virtualità degli algoritmi, confuso e deriso, ridotto a pura testimonianza, sfogo di pancia finalizzato ad esaurirsi, esplosione primordiale di istintualità plebea. Abbiamo scherzato, insomma. Ora basta, la pacchia è finita: e stai sereno Luigi, come direbbe il Matteo- bis, il tuo turno si è concluso.

Il Nuovo Ordine vede Salvini incoronato a Palazzo Chigi col seguito del centrodestra che fu e che non tramonta, mentre Renzi scorazza nelle praterie lasciate incustodite dal Cavaliere, con l’occhio fisso ai moderati acquattati nell’astensione in attesa di capire come va a finire. E il Pd, ridotto quanto serve, potrà recuperare la sua anima di sinistra, qualunque cosa oggi questo significhi. Soprattutto, il Nuovo Ordine deve ripristinare quello Vecchio seguendo una traiettoria che letterariamente trova il principe di Salina interprete eccelso, e che viene ritenuta la migliore per affrontare le sfide del terzo millennio appena aperto: il bipolarismo imperniato sullo spartiacque destra/ sinistra di cui il MoVimento è stato tanto casuale quanto spietato eversore. Se si riforma la destra - seppure con l’effige del Truce, come lo apostrofa Giuliano Ferrara inevitabilmente si riformerà anche la sinistra: sia nelle forme light che hard, tanto lo sfrangiamento fa parte del suo Dna. E così il Paese potrà riprendere la a marciare nella direzione che più si confà alla sua struttura: sociale, storica, politica e culturale.

C’è qualcosa di stupefacente nella traiettoria che sta afferrando Di Maio, qualcosa di crudele e allo stesso tempo ineffabile. Non che lui abbia fatto granché per interromperla o anche modificarla. L’imitazione che di lui ne fa Crozza è illuminante e apodittica: quel sorriso stampato sul volto qualunque sia l’argomento; l’eloquio che vuole essere consequenziale e scivola sui congiuntivi; la conoscenza che pretende di dimostrarsi ferrea e precipita sulla geografia e sui cognomi. E poi il filo del ragionamento: assertivo e sballato al tempo stesso.

Insomma Di Maio si è presentato alla prova del governo e della suprema responsabilità di Guida Carismatica come quegli studenti che preparano l’esame sul Bignami e imparano a memoria una paio di formulette. Puntano a sfangarla, insomma: tanto cos’hanno da perdere? Ed è allora che il gorgo della resipiscenza e del contrappasso ti inghiotte senza speranza.

Eppure sull’azione di governo le impronte digitali del suo partner sono esplicite almeno quanto le sue. Eppure le leggi più securitarie e inflessibili portano la firma del pari vicepremier. Eppure la capitolazione nei confronti dei “mandarini” della Ue, dell’ubriacone Junker e dell’ineffabile Dombrovskis è, diciamo, a pari merito tra lui e Salvini. Eppure niente, Di Maio è il bersaglio perfetto, quello su cui scagliare le frecce intinte nel curaro della prova fallita, dell’occasione perduta.

La caccia alla volpe è partita: fermarla sarà impossibile. Come quell’Altro, di statura non paragonabile, Di Maio cercherà ogni mezzo per sfuggire. Non ci riuscirà. A patto che, e anche questa a modo suo è una nemesi, proprio chi oggi lucra sulle sue difficoltà: il dioscuro Salvini, lo soccorra. Ma in quel caso non sarebbe salvezza bensì programmata obsolescenza, come quella del telefonini realizzati apposta per consumarsi. Se così fosse davvero, per Luigino l’interrogativo diventerebbe uno solo: meglio una fine spaventosa o uno spavento senza fine?