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Il fatto che Donald Trump abbia contratto il coronavirus sta dominando la cronaca delle imminenti elezioni Usa. Eppure l’elemento che deve farci riflettere è un altro. Parlo della vera e propria mutazione genetica che ha coinvolto entrambi i grandi partiti americani, una mutazione che rischia di stravolgere il panorama politico degli Stati Uniti - e il loro ruolo internazionale - anche negli anni a venire.
Eravamo abituati a dare per scontato che la battaglia elettorale negli Usa si giocasse al centro. D’accordo, delle eccezioni ci sono state anche in passato. Basti ricordare il caso del falco Barry Goldwater che i repubblicani candidarono alla presidenza nel 1964, e che fu sconfitto con un margine molto ampio dal presidente democratico uscente Lyndon Johnson. In quell’occasione tutti – o quasi – concordarono sull’inutilità di candidare personaggi appartenenti all’ala estrema dell’uno o dell’altro partito. Si disse, all’epoca, che l’elettorato americano tende spontaneamente verso il centro. E un ragionamento simile vale anche per il candidato democratico ultraprogressista John McGovern, pure lui sconfitto con un largo distacco da Richard Nixon nel 1972.
Tuttavia l’elezione, piuttosto inattesa, di Donald Trump nel 2016 fece capire a tutti che, nel frattempo, l’America era veramente cambiata. Collocarsi al centro della scena tentando di attrarre i cittadini moderati di entrambi gli schieramenti non era più la strategia vincente. Anche nel Paese leader dell’Occidente, come in altre parti del mondo, gli elettori amano slogan forti e semplici, e ai politici si chiedono promesse eclatanti pur sapendo che ben difficilmente possono essere mantenute. In altri termini il populismo, tanto di destra quanto di sinistra, ha preso il sopravvento innescando cambiamenti di cui ancora non si vede la fine. Ciò ha determinato un aspro scontro interno nei due partiti tradizionali. Nel campo repubblicano Trump ha vinto alla grande imponendo le sue parole d’ordine, e mettendo all’angolo il vecchio establishment del partito che continua tuttora ad essergli largamente ostile.
Parecchi repubblicani di spicco sono giunti al punto di preferirgli Joe Biden, affermando non tanto di astenersi, quanto piuttosto di votare il partito avversario pur di far sloggiare il tycoon newyorkese dalla Casa Bianca.
In ambito democratico la situazione è – se possibile – ancora più complicata. Il centrista Biden ha alla fine ottenuto l’investitura, soprattutto grazie all’appoggio decisivo di Barack Obama. Ma c’è riuscito solo dopo una lotta lunga e snervante con le varie componenti della sinistra democratica, che col tempo ha acquisito posizioni di forza prima impensabili. Il senatore “socialista” Bernie Sanders ha gettato la spugna soltanto all’ultimo minuto, e non è affatto certo che tutti i suoi sostenitori – e soprattutto i più giovani tra loro – siano disposti a votare un candidato democratico che giudicano troppo debole e moderato. Per non parlare di figure come Nancy Pelosi e Alexandria Ocasio- Cortez, il cui entusiasmo per la candidatura Biden è addirittura inesistente.
Qual è, dunque, il futuro politico degli Usa? È assai probabile una sempre maggiore radicalizzazione su entrambi i versanti. Trump flirta con i suprematisti bianchi e il “licenziamento” di Steve Bannon non ha affatto diminuito la sua preferenza per le frange repubblicane più radicali.
Il discorso vale anche per Biden che, pur essendo un moderato, deve fare i conti con i radicali di casa sua, del resto ben rappresentati in Senato e nella Camera dei rappresentanti. È infatti ovvio che, in caso di vittoria, l’ex vice di Obama dovrà fare molte concessioni alle varie anime della sinistra liberal. Molti analisti ritengono che la forza crescente del populismo di sinistra derivi dai sensi di colpa occidentali assai diffusi nelle università e nei mass media, fenomeno che ha portato all’incredibile successo del politically correct e della cancel culture. Il populismo di destra, dal canto suo, non è destinato a spegnersi presto, giacché rappresenta in modo iconico le frustrazioni dell’americano medio, dovute al declino industriale e culturale del Paese. Trump l’ha cavalcato con grande abilità, ma la sua eventuale sconfitta consentirebbe probabilmente al populismo di segno opposto di espandersi ancor più. Ecco perché è giusto sostenere che l’America “non è più la stessa”. Qualunque sia l’esito delle elezioni del 3 novembre, gli Stati Uniti rischiano di perdere peso e prestigio proprio quando, nel mondo, i regimi autoritari – con in testa la Cina – aumentano la loro influenza ovunque, anche in ambito europeo.