Wei an fu, “donna di conforto”: questo l'appellativo riservato alle ragazze – migliaia di coreane, filippine, cinesi – rapite e rinchiuse, nel mezzo dell'occupazione militare da parte del Giappone durante la Seconda guerra mondiale, nelle cosiddette comfort stations ( prigioni- bordello) con l'obiettivo di trasformarle in schiave sessuali.

Wang Di, protagonista dell'intenso ed evocativo romanzo di Jing- Jing Lee, Storia della nostra scomparsa ( Fazi Editore), ha soltanto tredici anni quando viene allontanata dal villaggio e dalla sua famiglia all'epoca dell'invasione nipponica di Singapore per essere rinchiusa in una comfort house e diventare un oggetto alla mercé dei militari giapponesi.

La sua vicenda si incrocia, sessant'anni dopo, con quella di Kevin, un ragazzo intenzionato a scoprire la verità sulla propria famiglia dopo aver ascoltato le confessioni della nonna in punto di morte. Un romanzo scomodo, doloroso: per scriverlo l'autrice – anche lei nata e cresciuta a Singapore – ha dovuto scavare nella propria storia familiare e riportare alla luce la memoria tormentata di un'intera generazione di donne destinate all'oblio.

Ms. Jing- Jing Lee, cosa l'ha spinta a scrivere una storia drammatica quanto delicata come quella delle comfort women, consumatasi durante l'invasione giapponese di Singapore? Cos'ha significato per lei raccontarla?

Non avevo intenzione di scrivere un romanzo basato su fatti storici. Ho iniziato a farlo perché uno dei personaggi di una precedente raccolta di racconti ha continuato a indugiare nella mia mente molto tempo dopo la pubblicazione del libro. È stato solo mentre lo scrivevo che ho realizzato che gran parte del romanzo doveva essere ambientato nella Singapore occupata dai Giapponesi. Avvertivo una grande responsabilità nel descrivere le comfort women e la Singapore del 1940 in modo accurato – a tal fine, ho impiegato molto tempo a documentarmi.

Nel romanzo ha evidenziato come alle ragazze recluse vengano imposti dei nomi giapponesi. Cosa questo ha significato per loro?

A mio avviso, ciò significò molto per loro in termini di proprietà e colonizzazione. È indicativo anche della mentalità del Giappone imperiale nei confronti del resto dell'Asia – ritenevano i non giapponesi alla stregua di subumani. Non so come abbiano giustificato l'attribuzione di un nuovo nome imposto alle ragazze: forse avranno affermato che sarebbe stato più semplice per il personale pronunciare nomi giapponesi, forse era solo per rendere più anonime le ragazze.

«Nella casa bianca e nera – ricorda Wang Di – parlavamo soltanto dei nostri corpi». Cosa rappresentava per le ragazze il loro stesso corpo durante la prigionia nelle confort stations?

Credo che per loro i corpi rappresentassero principalmente un rimando alla loro vergogna e vulnerabilità. Anche quando sono diventate più grandi, i corpi delle comfort women fungevano come una sorta di promemoria degli orrori che avevano attraversato. Molte di loro hanno contratto malattie sessualmente trasmissibili ( che non sono state adeguatamente trattate in tempo) e hanno avuto problemi di salute per il resto della loro vita; alcune di loro non poterono avere figli per quello che avevano passato. In un documentario intitolato “Because We Were Beautiful”, le vittime indonesiane dell'esercito imperiale giapponese hanno espresso rammarico per essere state tanto desiderabili da avere attirato l'attenzione dei soldati ( da qui il titolo del documentario).

«Nessuna di noi pronunciò mai la parola ' stupro'. Non dovevamo farlo». Quanto la creazione di zone grigie – che deriva anche dal non dare il giusto nome alle cose – ha contribuito a dinamiche di violenza e prevaricazione?

Penso che in realtà non nominare l'atto derivi da un tabù sociale che riguarda lo stupro, cosa che ha contribuito a perpetuare più a lungo il tabù stesso. Si tratta di un circolo vizioso: queste dinamiche creano un contesto in cui alle donne non è permesso parlare di tali problemi – a costo di venire punite per averlo fatto – e il silenzio che circonda la violenza sessuale fa sì che questi tabù rimangano intatti. Il silenzio delle vittime è parte integrante della “scomparsa” di queste donne.

«È una confort woman! » : la vergogna provata dopo la liberazione può essere quasi maggiore delle violenze subite? L'isolamento familiare e sociale ha fatto seguito all'isolamento fisico della detenzione?

Non credo che queste donne siano state detenute dopo la guerra, ma, in realtà, molte di loro si vergognavano di parlare di quanto era loro accaduto con i familiari. L'isolamento sociale che hanno esperito potrebbe essere terribile quanto la detenzione: in alcuni casi esse sono rimaste nelle stesse zone in cui erano state tradotte ( molte donne coreane, ad esempio, sono state condotte in Manciuria e in Cina), in isolamento sociale, lontane dalle loro comunità e dalle loro famiglie per il resto delle loro vite.