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Claudio Martelli, ex ministro della Giustizia ai tempi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
Due forti sensazioni, in contrasto fra loro. Rabbia da una parte, pragmatismo dall’altra. «Ma come si fa», quasi grida Claudio Martelli al telefono, «a non concentrarsi su un aspetto sconcertante, e cioè sul fatto che Matteo Messina Denaro è stato per trent’anni non in Sudamerica, ma a Trapani, nella sua città, e solo dopo trent’anni lo si è riusciti a prendere?».
L’altra è una considerazione più semplice, pacata e appunto pragmatica: «Gran parte della lotta alla mafia si traduce ormai nel contrasto delle nuove sofisticatissime e tecnologiche forme di ricatto, il cybercrimine, e non era indispensabile arrestare Messina Denaro per virare verso la repressione di quest’altro modello, come mi ha spiegato il capo della Dna Giovanni Melillo».
Ecco, onorevole, ma lei che è stato ministro della Giustizia negli anni più terribili, che ha voluto con sé Giovanni Falcone a via Arenula, se la sente di dire che adesso, con l’arresto di Messina Denaro, davvero quella mafia è vinta, è battuta, e che possiamo concentrarci su altro, possiamo un po’ superare l’eccezionalismo nel diritto penale che dallo stragismo mafioso trova giustificazione?
Lei è un po’ sulla linea del libro di Alessandro Barbano, vero?
Sì, non ho difficoltà ad ammetterlo.
E va bene, ma mi scusi, non riesco a seguirla, perché non capisco come si possa pensare ad altro che non sia il paradosso di una cattura arrivata con tanti anni di ritardo. O per meglio dire, non capisco, non ho risposte, ma trovo comunque sorprendente che ci si metta trent’anni per catturare il boss considerato più pericoloso e potente fra quelli ancora in libertà, trent’anni, ripeto, nonostante fosse lì nella sua Trapani, in una città che non ha neppure centomila abitanti, non in Sudamerica.
E subito sono state messe in circolazione leggende nere su una sorta di trattativa indiretta aperta dallo stesso Messina Denaro per cedere alla cattura, trattativa che sarebbe stata legata essenzialmente alle sue condizioni di salute.
Ma davvero mi rifiuto di rispondere a questo. Certo, mi pare chiaro che le condizioni di salute c’entrino, che il bisogno di cure specialistiche possa aver favorito l’arresto. Torno sempre al punto di partenza: dopo trent’anni arrestiamo Messina Denaro nonostante non avesse mai lasciato Trapani, e a quanto pare cvi riusciamo perché le sue condizioni di salute lo hanno in qualche modo obbligato ad arrendersi. Ma com’è possibile? Com’è che il nostro Stato non ce l’ha fatta prima?
Quindi lei ritiene che non pesi solo la straordinaria e solidissima rete di fiancheggiatori ma anche una non assolutamente ferma volontà dello Stato, nel fatto che si sia arrivati relativamente tardi alla cattura?
Viene da dire che lo Stato in Sicilia non è lo stesso che a Firenze o a Venezia. Ma io pongo una questione, carico di stupore e di sconcerto, senza retorica, senza cioè nascondere una risposta che avrei già trovato. No, non ho risposte. Mi stupisco davvero e vorrei che qualcuno condividesse il mio sconcerto.
Possiamo dire che Messina Denaro è un simbolo e che finché è stato libero ha consentito il preservarsi di un’idea vecchia dell’antimafia?
È un’osservazione sofisticata, ma mi perdonerà se preferisco fermarmi alla mia domanda e al mio sconcerto. Tra l’altro, si è sfiorata la clamorosa e incredibile coincidenza: per un giorno appena, Messina Denaro non è finito nelle mani dello Stato esattamente trent’anni dopo Toto Riina, arrestato il 15 gennaio del 1993. Però, visto che anche Riina era stato latitante trent’anni, era sfuggito cioè alla cattura per lo stesso lunghissimo tempo impiegato per trovare Messina Denaro, a maggior ragione sessant’anni per prendere due boss mafiosi costituiscono un fatto incredibile.
Mi permetta di riproporle la domanda: da anni le relazioni dei procuratori nazionali Antimafia indicano nella nuova grande mafia degli affari, dei circuiti finanziari globali, il vero nemico da contrastare. Con Messina Denaro finalmente nelle mani dello Stato crede che ci si concentrerà più su questo modello, anziché sull’inseguire il Moloch della vecchia mafia stragista?
Mi pare che le forze della magistratura antimafia siano in realtà già rivolte in questa direzione. Sono stato a trovare il, procuratore nazionale Giovanni Melillo il quale mi ha spiegato come oggi la vera emergenza sia costituita dalle cybermafie, cioè dalla capacità della nuova mafia di entrare in possesso dei dati, di violare la segretezza dei dati anche di grandi soggetti economici, e di poter così esercitare una nuova, gigantesca e potente forma di ricatto. Già è quello il fronte più allarmante.
Siamo avanti, ma ci abbiamo messo trent’anni per trovare Messina Denaro nella sua Trapani.
Appunto.