«Il ministro Nordio si sta dimostrando molto attento alla realtà carceraria. Spero che l’intero apparato gli dia la possibilità di realizzare quanto ha in mente. Nordio ha una concezione moderna del carcere e del processo penale. Servono però investimenti. I buoni propositi rischiano di rimanere tali se mancano le risorse. Anzi, potrebbero trasformarsi in promesse non mantenute: niente di peggio per la politica e le istituzioni». Gaetano Pecorella, penalista con cinquant’anni di esperienza, apprezza l’impegno del guardasigilli all’indomani della fuga di sette reclusi dal carcere minorile di Milano. Al tempo stesso auspica un cambio di mentalità per affrontare con pragmatismo la questione carceraria minorile. «I ragazzi reclusi – dice al Dubbio – devono potersi costruire lo stesso un futuro».

Avvocato Pecorella, la fuga dal Beccaria ha acceso i riflettori sulla condizione delle carceri minorili. Non siamo all’emergenza, ma è scattato un campanello d’allarme?

È proprio così. Mi meraviglio che non ci si sia accorti prima della situazione delle carceri minorili. Tanto dipende dalle attività rieducative che si mettono in campo e che riguardano la possibilità di avere un insegnamento, una scuola efficiente, un titolo di studio e un lavoro. Le carceri minorili dovrebbero preparare i giovani reclusi ad avere un futuro. Questo è un dato essenziale. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha mostrato subito attenzione rispetto a questi profili di prevenzione.

Il guardasigilli, dopo i fatti di Natale, ha anticipato la creazione di un tavolo interministeriale. Famiglie scuola e terzo settore vanno coinvolti. Una prima risposta concreta da parte di via Arenula?

Direi di sì anche se a me pare che il tavolo suggerito dovrebbe essere completato con il coinvolgimento del ministro dell’Interno e del ministro dell’Economia. Il problema non è il carcere, ma chi va in carcere. Di solito dietro le sbarre finiscono quei giovani che fuori dal carcere non hanno un lavoro o una preparazione tale da entrare nel mondo del lavoro e vivono in situazioni ambientali in cui la principale attività è quella di commettere reati. Bisognerebbe intervenire in quelle aree delle grandi città, a partire da Milano, in cui il comportamento criminale è all’ordine del giorno. I primi interventi vanno fatti fuori dal carcere per fare in modo che le aree in cui i giovani imparano la criminalità, anziché studiare o approcciarsi ad un lavoro, siano risanate. Noi pensiamo tanto, giustamente, a risanare l’ambiente, ma esiste anche una esigenza a risanare le aree sociali, dove alligna la criminalità e dove molti giovani vedono il loro futuro solo in funzione di comportamenti criminali. Questo, secondo me, è un tipo di intervento al quale di solito non si pensa. Il criminale non nasce tale, ma si forma in ambienti sociali in cui la criminalità è una attività possibile per garantirsi un futuro.

La fuga dal Beccaria ha posto l’accento sul tema della scopertura dei ruoli apicali negli istituti penitenziari. Alcune problematiche nascono anche dall’organizzazione?

Evidentemente questo è il segno della poca attenzione che ha avuto la politica. È impensabile che ci sia una struttura in cui manca un insieme di soggetti che si occupano individualmente di ciascun detenuto. È il segno di promesse non mantenute. Durante la mia esperienza al Parlamento, presentai un disegno di legge per l’organizzazione degli agenti di custodia e di tutto il sistema carcerario dal punto di vista della corporazione. Il fatto che ci vogliano anni e anni per avere un direttore stabile e competente ha fatto emergere una situazione chiara, ma l’attenzione dimostrata dal ministro della Giustizia fa ben sperare. Il direttore di un carcere minorile deve instaurare un rapporto educativo non repressivo.

Un ragazzo che finisce nel carcere minorile rischia di rovinarsi per sempre?

In passato si accomunava il carcere ad una scuola di delinquenza. Me lo ricordava sempre il mio maestro, Giandomenico Pisapia. Chi entra nel carcere anche se non è un vero delinquente lo diventa per i rapporti che si instaurano in quell’ambiente. La questione ruota attorno a un tema preciso: in carcere, prima di tutto, si dovrebbe andare nei casi in cui è assolutamente necessario e indispensabile. Da noi si va in carcere in misura cautelare anche per reati che non meritano la carcerazione, perché la persona non è pericolosa e può restare all’esterno. Questo discorso dovrebbe essere ancora più valido per i minori. Il minore dovrebbe essere affidato più che al carcere a delle comunità di rieducazione. Il carcere non solo non rieduca, ma peggiora le abitudini e i rapporti criminali. Ricordo il caso di un mio assistito, in carcere per motivi politici, che fu avvicinato per organizzare una rapina, in quanto ritenuto più intelligente degli altri reclusi.

Nella luccicante Milano si fanno i conti con i fenomeni delle baby gang, che creano non poco allarme sociale. Le periferie e i centri cittadini come si avvicinano per impedire la creazione di sacche di disagio e di devianza?

Le sacche sociali di criminalità nascono da fenomeni di grave disagio, che, prima di colpire il minore, interessano la sua famiglia e l’ambiente circostante. Una volta la presenza di altre realtà, come le parrocchie, riusciva a contrastare certi fenomeni. Bisognerebbe creare dei centri sociali in cui i giovani possano essere seguiti e guidati. Si deve partire dall’esterno del carcere per combattere il fenomeno della criminalità minorile. Il carcere è l’ultima spiaggia e deve essere concepito come un luogo sociale e non come un luogo di restrizione e basta.

Il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, si è espresso sulla possibilità, per contrastare il sovraffollamento, di destinare alle comunità i detenuti tossicodipendenti disponibili ad un percorso alternativo alle sbarre. Cosa ne pensa?

In verità è quello che accade anche oggi. L’alternativa tra il carcere e la comunità per i detenuti tossicodipendenti induce a scegliere naturalmente la comunità. È una buona soluzione. Spesso le comunità sono affidate a sacerdoti e sono espressioni della chiesa.

Pensare a comunità di altro genere, più aperte e più sensibili anche alle esigenze giovanili, non sarebbe sbagliato. Le comunità insegnano un mestiere, aiutano a stare insieme ad altri soggetti e a pensare alla vita fatta di lavoro onesto. Lo Stato dovrebbe svolgere una funzione propulsiva per le comunità anche di tipo laico. Sarebbe opportuno pensare a percorsi in comunità rieducative non solo per i tossicodipendenti.