«La preoccupazione maggiore è di sbrigarsela in fretta, di poter uscire dall’aula fetida, di respirare. Nessun senso di responsabilità. Il pubblico ministero che, secondo i sacri principi dell’ 89, tutela la collettività e deve parlare in nome di tutti per il diritto che tutti hanno di vivere tranquilli, chiacchiera con un vicino; quando viene il suo turno domanda un nome, scorre un rapporto di polizia, ricorda un articolo del codice, e bolla. Il suo dovere, secondo lui, è di condannare sempre. La polizia ha già condannato; contraddire alla polizia richiederebbe uno sforzo, domanderebbe una persuasione». Sono le parole tratte da l’articolo di un giovane cronista dell’Avanti! Parliamo del 1916 e l’autore è Antonio Gramsci. Ebbene, il titolo dell’articolo è “Pregiudicati!”. Ce l’ha con questa terminologia che piace tanto a Marco Travaglio e poi entrata nel lessico comune di una certa politica prono ai poteri. Dai cinque stelle, fino a una parte consistente della sinistra che ha, snaturando il pensiero libertario, abbracciato in toto tutto il potere giudiziario.

Ecco l’articolo completo di Gramsci:

Non abbiamo molta simpatia per il romanticismo francese. Le gonfiezze, le prediche sociali di Victor Hugo ci lasciano discretamente indifferenti. Sterili diatribe, esse distruggono, ma non costruiscono neppure dell'arte. Prodotto di un feticismo sentimentale per il «popolo» non lasciano solco nelle coscienze, non lasciano stimoli alla fantasia creatrice. Eppure, caduti per caso nell'aula di un tribunale, ripensiamo alle enormi, titaniche sfuriate del romantico francese contro la giustizia dei suoi tempi, e vorremmo avere i suoi robusti polmoni per soffiare contro queste montagne di carta stampata che lasciano sulla fronte dei pazienti, che sfilano alla sbarra, il marchio che li manda per sempre alla geenna dei bassifondi: pregiudicato!

Trenta minuti di discussione, quattro processi per direttissima, quattro condanne, quattro nuovi pregiudicati. Anche i loro nomi sono ignoti ai giudici fino all'ultimo momento decisivo. La preoccupazione maggiore è di sbrigarsela in fretta, di poter uscire dall'aula fetida, di respirare. Nessun senso di responsabilità. Il Pubblico ministero che, secondo i sacri principî dell' 89, tutela la collettività e deve parlare in nome di tutti per il diritto che tutti hanno di vivere tranquilli, chiacchiera con un vicino; quando viene il suo turno domanda un nome, scorre un rapporto di polizia, ricorda un articolo del codice, e bolla. Il suo dovere, secondo lui, è di condannare sempre. La polizia ha già condannato; contraddire alla polizia richiederebbe uno sforzo, domanderebbe una persuasione.

E il caldo non consente sforzi, la fretta e la conversazione interessante col vicino non lasciano tempo alla persuasione di formarsi. La collettività lo paga, e lautamente, per essere tutelata; suppone in lui quel minimo di simpatia umana necessaria per non cacciare in prigione il primo venuto, per non creare di un onesto, che può anche aver fallito per un momento, un pregiudicato, un refrattario che ormai non penserà più che all'ingiustizia subita, che ormai, obbligato dal marchio infamante a vivere in margine, sarà preso dall'ingranaggio e diventerà il delinquente nato, a soddisfazione dell'antropologia criminale.

Non abbiamo simpatia per il romanticismo francese. Eppure desidereremmo che uno di quei grandi retori, di quei feticisti del «popolo» inchiodasse alla gogna nel volume che corre fra le mani di tutti il tipo di questi barbassori del diritto, di questi irresponsabili che vengono assunti alla cattedra seguendo il pregiudizio che la collettività possa davvero essere difesa da loro. Perché pensiamo che noi non possiamo subito dare una sanzione punitiva a tanta leggerezza. Perché vorremmo, ma sarebbe pretendere troppo, che la furia di popolo spazzasse via queste montagne di carta bollata, questi commedianti in toga, odiosi non meno dei melodrammatici inquisitori di felice memoria. E allora ci basterebbe che per effetto del libro romantico, essi fossero inseguiti, vociati per le vie come i gesuiti dai lunghi cappelli a tegola delle vecchie incisioni. Perché, persuasi che una giustizia veramente possa esistere, la nostra irritazione morale potesse trovare sfogo contro queste parodie che alle menti leggere sembra dover essere tutta la giustizia, la sola giustizia possibile.

Antonio Gramsci, 2 agosto 1916

In un articolo pubblicato il 10 settembre 1917 Gramsci commentava la proposta comparsa sul

Corriere della Sera di affiancare alla tessera annonaria per il pane una “tessera per la libertà”. Il pensatore sardo, allora giornalista dell’Avanti, riteneva che la tessera avrebbe dovuto garantire dei diritti fondamentali. Quei diritti che oggi vengono criticate da tutte le correnti della magistratura. In particolare proprio quella di sinistra, dove teoricamente Gramsci dovrebbe essere un faro.

Riportiamo integralmente l’articolo.

La tessera per il pane non basta – sostiene il «Corriere della Sera» – è necessario introdurre anche la tessera della libertà. È geniale, non è vero? Tanto geniale che ci rendiamo subito solidali con la proposta, rendendola subito concreta.

La tessera potrebbe consistere in una legge che affermasse: 1) Un cittadino italiano che venga arrestato, non può per più di dieci giorni essere tenuto all’oscuro sulle cause del suo arresto, ma deve entro dieci giorni essere condotto dinanzi al suo giudice naturale, e riottenere la sua libertà anche se provvisoria.

2) L’arresto preventivo è mantenuto solo per gli accusati di colpe gravissime – quando gli indizi della colpevolezza siano tali da fare apparire probabilissima la condanna – e non deve mere prolungato per un termine superiore alla misura minima della condanna.

3) Gli agenti, i giudici, i carcerieri, per colpa dei quali un cittadino viene arbitrariamente privato della libertà, sono tenuti a pagare al malcapitato una indennità in solido ciascuno di lire diecimila, da scontarsi in tanti, giorni di prigione in caso di insolvibilità, con iscrizione nella fedina penale, rimozione dall’impiego e perdita dei diritti civili per cinque anni.

La tessera importa una limitazione, ma deve anche importare una garanzia sicura e concreta del minimo di libertà accordato. La tessera non deve essere solo per i cittadini comuni, deve anche essere per i cittadini tutori. E rigorosa, per gli uni, ma specialmente per gli altri. Non deve capitare come per lo zucchero.

La libertà, come il pane, deve essere garantita: la tessera della libertà, come questa da noi invocata, esiste da quasi tre secoli in Inghilterra, paese alleato, che combatte anch’essa la guerra per la libertà e la giustizia. La introduca anche il governo italiano, e sia pure per decreto luogotenenziale. Ma l’Italia del «Corriere della Sera», che ammira l’Inghilterra per i suoi miliardi, intende tessera… italiana; per lo zucchero, senza zucchero; per il pane, senza pane; per la libertà, con Bava Beccaris e con gli stati d’assedio.