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Circa la metà della popolazione mondiale vive in aree a rischio ed entro il 2050 si stima un peggioramento della qualità dell'acqua. La soluzione è promuovere una legislazione ispirata ad una visione «ecocentrica», con il riconoscimento del diritto all’acqua e la natura quale soggetto giuridico, «per potenziare l’armonizzazione e l’evoluzione del diritto ambientale internazionale». Principi contenuti nel protocollo siglato nel 2018 dal Consiglio nazionale forense e con il commissario generale di sezione per l’Italia per Expo Dubai, Paolo Glisenti. Un accordo con cui la “costituente” dell’ambiente, formata dalla rete dell’avvocatura dei Paesi del Mediterraneo, ha assunto l’impegno di individuare le nuove forme del diritto all’acqua e allo sviluppo sostenibile, che l’Italia proporrà alla esposizione internazionale negli Emirati arabi, dove la presenza dell’avvocatura italiana è prevista come «eccellenza». L’idea, spiega Francesco Greco, consigliere Cnf che coordina la Commissione interna per l’Expo di Dubai, è senz’altro innovativa: l’avvocatura ha infatti proposto un approccio olistico al tema ambientale, cercando di ricomporre le fratture che caratterizzano i Paesi del Mediterraneo. L'avvocatura italiana ha un ruolo pedagogico: “insegnare” agli Stati che l’acqua è un diritto primario dell’essere umano. Questo perché in teoria si tratta di un diritto primario, in pratica non lo è. Le Costituzioni occidentali non contengono un diritto costituzionale all’acqua, nemmeno la nostra. E nel nostro Paese ci sono aree geografiche dove gli interventi strutturali che consentono di avere l’acqua corrente sono stati effettuati solo negli ultimi decenni. In Sicilia, per esempio, alcune aree dell’entroterra, fino a 20 o 25 anni fa, avevano l’acqua razionata ogni tre-quattro giorni. Soltanto pochissime Costituzioni moderne prevedono un diritto all’acqua. Ma tutte le altre no, perché l’acqua è sempre stata considerata un bene comune, diffuso, un po’ come l’aria. Oggi si comincia a comprendere che si tratta di un bene prezioso, e che comincia a scarseggiare a causa del cambiamento climatico. Quali sono le conseguenze? Un utilizzo egoistico, da parte dei Paesi, dei corsi d'acqua. Non potevo immaginare, quando ho cominciato a occuparmi di questo tema, che in determinate aree ci fossero contrasti per l’utilizzo dei corsi d’acqua o dei laghi. Pensavo la cosa riguardasse le aree geografiche del mondo più povere, invece ho scoperto che ciò accade anche negli Stati Uniti e in Europa. Per il fiume Colorado, che attraversa diversi Stati degli Usa e sfocia in Messico, ci sono forti contrasti per l’uso massiccio ai fini agricoli e idroelettrici che gli americani ne fanno, a discapito del Messico, dove il fiume giunge svuotato di quasi tutta la sua portata d’acqua. Analogo problema abbiamo in Europa per il Danubio tra Ungheria e Slovacchia. Ciò vale anche per il Nilo, il Gange e tanti altri importanti corsi d’acqua che attraversano più Paesi. Insomma: è una questione presente in tutto il mondo. E negli ultimi 20 anni sono stati contati circa 700 conflitti tra Stati per l’utilizzo dell’acqua. Serve, dunque, un codice universale. L’argomento è delicato. Ogni Paese tende a sfruttare al massimo i corsi d’acqua che attraversano il proprio territorio e la cosa diventa strumento di supremazia politica: se tu vieni dopo di me, attraverso l’acqua io ti posso controllare. Quindi c’è anche una forma di supremazia economica. E poi quella tecnologica: le aree tecnologicamente più sviluppate riescono a utilizzare e a distribuire meglio l’acqua. Serve un’interlocuzione tra gli Stati, ma non è mai stata raggiunta. È sempre mancata un’autorità centrale che regola il diritto all’acqua. Ed è questo quello che servirebbe. In che modo questi abusi potrebbero essere eliminati? Fissando dei paletti. E affermando dei princìpi, come l’obbligo di garantire, nella distribuzione dell’acqua, degli standard di qualità e di quantità. Sia che si tratti di un soggetto pubblico, sia che si tratti di un privato, bisogna stabilire che nell’area geografica di riferimento si debba, per ogni chilometro quadrato, garantire una certa distribuzione. I rapporti Unesco sull’acqua ci restituiscono dati terribili: il 25 per cento della popolazione mondiale non ha risorse idriche. Tre persone su dieci non hanno acqua potabile. Il nostro intento è riaffermare il dovere degli Stati di non abusare delle risorse, intervenendo sui distributori dell’acqua e spingendo tutti gli Stati a impegnarsi nel garantire standard di qualità, in termini di purezza, e di quantità, commisurati al territorio e alla popolazione. Perché il commissariato per l’Expo si rivolge agli avvocati? Perché, per la prima volta, a un evento mondiale in cui si parla di tecnologie, di scienza e sviluppo sostenibile, si parlerà di diritti. E non è mai successo. Il commissariato si è rivolto al Consiglio nazionale forense, organo di rappresentanza degli avvocati, chiedendoci di mettere in campo le nostre competenze giuridiche, lavorando insieme per affrontare il tema del diritto all’acqua. Non soltanto come diritto del singolo ad avere una quantità minima per bere e per l’igiene, ma anche per regolarizzare e strutturare una condivisione tra i Paesi sull’utilizzo comune, a tutela della collettività. I diritti diventano dunque strumento di crescita e di sviluppo sostenibile. Quale risultato si aspetta? Mi piacerebbe che si arrivasse a potere redigere, per come abbiamo pensato al Consiglio nazionale forense, una Carta universale del diritto all’acqua, che contenga al suo interno questi principi. Stabilire un diritto all’acqua può essere anche uno strumento di risoluzione e prevenzione dei conflitti. E inoltre porterebbe a investimenti nei Paesi che non dispongono delle risorse necessarie per sfruttare l’acqua. Una cosa che limita gli investimenti è l’instabilità politica, e regolando il diritto all’acqua si può arrivare a creare una garanzia per chi investe.