«Questo decreto è quasi un’ammissione di impotenza». Il giurista Gianfranco Schiavone, dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, non usa mezzi termini: il nuovo decreto anti ong non arriverà da nessuna parte.

In primo luogo perché certifica, nonostante le intenzioni del governo, l’obbligo di salvataggio. E anche qualora venisse applicato in senso restrittivo, non potrebbe che soccombere di fronte alle norme internazionali, che cerca di aggirare - ma nemmeno troppo - con frasi ambigue e «mezzucci» che hanno un unico reale scopo: rallentare le attività di soccorso. Nemmeno il tentativo - flebile, a dire il vero - di impedire i soccorsi multipli potrà infatti reggere di fronte alla legge.

«È una strada molto stretta quella imboccata dal governo - spiega al Dubbio Schiavone -, perché in realtà il messaggio generale che viene fuori da questa operazione rocambolesca è che di fatto il soccorso in mare non può essere impedito. E anche questo governo, che è iniziato con lo slogan “blocco navale”, alla fine deve accettare lo Stato di diritto, riconoscendo che le operazioni di soccorso in mare, svolte a qualunque titolo e da qualunque soggetto, sono ciò che il diritto della navigazione e il diritto internazionale impongono. E che i poteri che un governo nazionale può esercitare devono muoversi dentro questi paletti, che sono invalicabili».

Impedire i salvataggi plurimi è impossibile, aggiunge il giurista, in quanto si tratterebbe di «una delle violazioni più clamorose delle convenzione della Nazione Unite e anche del diritto della navigazione». Il decreto, stando alla bozza, impone di raggiungere il porto di sbarco assegnato dalle competenti autorità senza ritardo per il completamento delle operazioni di soccorso. Una frase di per sé neutra, anzi addirittura corretta, «perché una imbarcazione non può decidere di non completare il soccorso. Ma se nel tragitto ci sono altri naufraghi che possono essere salvati con una deviazione ragionevole rispetto alla finalità complessiva si è obbligati a salvarli. Che tipo di contestazioni possono essere mosse? - aggiunge - La fattispecie individuata è genericissima. Queste frasi o vogliono non dire niente o vogliono entrare in conflitto con le normative internazionali».

E a questo punto le possibilità di “sopravvivenza”, per il decreto, sono minime: «La finalità superiore è il soccorso - spiega ancora Schiavone -. Sbarcare due giorni dopo per salvare delle persone è qualcosa che nessuno potrà mai contestare. Sulla base di cosa, poi? Non c’è un divieto di salvataggi multipli. Tutto quello di cui si discute sono dichiarazioni politiche, ma si sono ben guardati dallo scrivere nel decreto frasi così sciocche».

Si tratta, dunque, di una norma manifesto, ma «estremamente vacua». Come mettere nero su bianco che le attività di ricerca e soccorso in mare non devono concorrere a creare situazioni di pericolo a bordo né impedire di raggiungere tempestivamente il porto di sbarco. Un’ovvietà già prevista dalla convenzione Unclos, secondo cui il soccorso deve sempre essere tentato, a meno che non sia evidente il rischio per le persone a bordo della nave. Lo scopo reale del governo è ravvisabile anche dalla scelta di ricorrere ad una sanzione amministrativa e non ad una norma penale. E ciò perché «è molto più facile sollevare una questione di legittimità», nel secondo caso, che avrebbe inoltre richiesto disposizioni più chiare.

«La norma manca del rispetto della tassatività - prosegue Schiavone -. Inoltre l’organo che applica la sanzione, ovvero il prefetto, è lo stesso al quale fare ricorso. Ma come fa il prefetto del territorio ad avere contezza del fatto che, ad esempio, quella nave ha creato situazione di pericolo? E perché dovrebbe essere il prefetto del punto di sbarco? Caso mai dovrebbe essere un’autorità nazionale, perché le fonti informative sono la guardia costiera e il centro di coordinamento». Il tentativo, ammesso che sia fattibile, è dunque quello di rallentare le operazioni di soccorso, ma «contro il diritto internazionale si perde e si perde tempo».

E anche il refrain che le ong rappresentano un pull factor è solo una chiacchiera. Non solo perché non è mai stato provato, ma anche perché sarebbe del tutto irrilevante per il diritto internazionale. «Persino se esistesse un’ipotesi di questo tipo - continua il giurista -, che è stata largamente smentita, non avrebbe niente a che fare con l’obbligo di soccorso. È solo un argomento politico».

Altra questione è l’obbligo di avviare tempestivamente iniziative volte ad acquisire le intenzioni di richiedere la protezione internazionale. Cosa fattibile già adesso, dal momento che il comandante, sulla nave, è un pubblico ufficiale, senza la necessità di scrivere una nuova norma. «Anzi - aggiunge Schiavone - finalmente si chiarisce che non bisogna indurre le persone a chiedere protezione: è giusto informarle dei loro diritti e in caso raccogliere i dati. Ma questo non vuol dire che le domande vengano prese in carico dal capitano della nave né che la competenza ad esaminarle sia del Paese di bandiera: non è previsto nel diritto dell’Unione europea».

Anche perché se questa interpretazione fosse corretta l’Italia avrebbe già potuto applicare questo principio: basterebbe aprire uno dei tanti contenziosi previsti del regolamento Dublino e sostenere che lo Stato di bandiera è quello di confine. «Facciamolo, qual è il problema? - si chiede Schiavone - Ve lo spiego io: ci si schianterebbe contro un muro. Una norma interna non può modificare il sistema d’asilo europeo». La soluzione per gestire i fenomeni migratori è una sola: rendere praticabili le vie d’accesso legali all’Europa per motivi diversi dalla protezione.

«Il canale dell’asilo è una sorta di imbuto obbligatorio - conclude Schiavone -. Bisogna cercare di diminuire il numero delle persone che vi si infilano in assenza di altre possibilità e consentire l’ingresso regolare con forme nuove. Solo in questo modo ci sarà una diminuzione dei clienti dei trafficanti. A quel punto si potranno fare dei programmi di ingresso protetto dei rifugiati: questo è ciò che un governo saggio dovrebbe fare. E non finanziare la guardia costiera libica perché pensiamo che l’unica cosa da fare sia impedire. Impedire non è possibile, oltre che illegittimo. E l’effetto paradossale è che finiamo per non gestire proprio nulla».