Sul caso Cospito stiamo assistendo ad una disputa virulenta, con uno scambio di accuse reciproche tra i partiti. L’avvocato Gaetano Pecorella, penalista con oltre cinquant’anni di esperienza al servizio del diritto di difesa, commenta sconsolato quanto sta accadendo negli ultimi giorni. «Purtroppo – dice al Dubbio - il nostro Parlamento non perde l’occasione per fare delle brutte figure davanti al paese. Se i parlamentari litigano, si minacciano e si diffamano, possiamo immaginare cosa pensano i cittadini rispetto al luogo in cui si dovrebbe discutere con la più alta cultura e il più alto rispetto per la controparte. Poi ci lamentiamo delle violenze che si verificano, quando la prima sede in cui si verificano violenze verbali è proprio il Parlamento».

Giorno dopo giorno assistiamo ad uno scambio di accuse tra gli esponenti delle forze politiche, perdendo di vista le questioni prettamente tecniche legate al 41 bis. Insomma, uno scontro ideologico che non fa bene all’Italia. «Quello del 41bis – commenta Gaetano Pecorella - è un tema particolarmente delicato sul piano dei contenuti e delle interpretazioni e pone degli interrogativi sulla natura della disposizione normativa. Assistiamo ad uno scontro ideologico perché il politico che parla non pensa alla soluzione giusta dal punto di vista del rispetto dei diritti della persona e delle tecniche normative. Pensa alla soluzione che potrà fargli acquisire più o meno consenso nel paese. Un paese che è stato costruito in questi ultimi anni sui principi della repressione, sul principio, come si usa dire, del “buttar via la chiave”, sui principi della mancanza di considerazione dei soggetti più deboli. È chiaro che chi fa politica calcolerà quali sono gli effetti sul suo elettorato. Si è completamente stravolta quella che dovrebbe essere la funzione intellettuale del Parlamento con la presentazione di soluzioni giuste».

Sul trasferimento di Alfredo Cospito nel carcere di Opera, per garantirgli delle cure, l’avvocato Pecorella rileva alcune contraddizioni. «Intanto – afferma -, credo che si debba prendere atto che l’apparato giudiziario si è attivato in funzione della tutela della salute, dopo che ci sono stati

degli atti, giustamente condannati, di violenza. È però paradossale che invece di attivarsi sulla base di quelle che erano le reali esigenze di salute di Cospito abbiamo dovuto aspettare degli attentati per renderci conto che la situazione non era la migliore per garantire la salute del detenuto. È stato detto: “Noi non siamo stati condizionati da nulla”. Non è così. Fino a ieri non è stato fatto nulla per la salute del detenuto e subito dopo alcuni fatti ci si è attivati. I casi sono due. O era giusto quello che veniva fatto prima e allora non si dovevano modificare le condizioni di detenzione oppure, se sono cambiate, ci si è accorti, sulla base di alcuni atti di violenza, che non era una condizione sufficiente per garantire la salute del detenuto. Salute che, in ogni caso, viene prima di ogni altra cosa».

Quanto sta accadendo ha sollevato un dibattito acceso sulla natura e sulle finalità del 41 bis non proprio protese al recupero del detenuto. Su questo Pecorella è chiaro. «La questione centrale del 41 bis – aggiunge - ruota attorno ad un tema ben preciso: capire come oggi è concepito e a che cosa serve. Se il 41bis è una norma effettivamente diretta a tutelare la sicurezza pubblica o se, così come è concepito, è una forma di “dolce tortura” con una serie di limitazioni che non hanno nulla a che vedere con i rapporti esterni. Il 41 bis realizza un sistema di isolamento che aveva e ha come obiettivo non tanto quello di impedire la comunicazione all’esterno del carcere o all’interno, ma quello di stroncare la resistenza umana di chi si trova detenuto. I detenuti con 41 bis stanno in una cella singola, con un solo letto, una seggiola fissata al pavimento, vengono sorvegliati 24 ore su 24. Mi pare abbastanza evidente che tutto ciò abbia ben poco a che vedere con il problema di impedire le comunicazioni. Io penso che così come è concepito il 41bis abbia più la funzione di stroncare la resistenza fisica e psicologica, piuttosto che impedire i rapporti tra interno ed esterno del carcere».

Su questo punto il penalista è chiaro: «Credo che vada fatta una riforma. Non stiamo parlando di una abolizione, ma dell’esigenza di toccare quei punti contrari al rispetto dei diritti umani e alla funzione della pena nel nostro ordinamento, come prevede la Costituzione. Mi chiedo come possa tendere alla rieducazione la pena di una persona che sta chiusa in una cella senza rapporti con i familiari, che non ha rapporti culturali, che non ha nessun modo di comprendere i propri errori».

Conciliare l’esigenza della sicurezza pubblica e il dettato costituzionale è molto impegnativo. «Il trattamento duro – conclude l’avvocato Pecorella - distacca dai familiari, dalla società, dai rapporti con gli altri detenuti. Tenere una persona isolata per tutta la sua esistenza significa annientarla. È un atto di disumanità che la nostra Costituzione non prevede. Nessuno ha il coraggio di toccare la Costituzione, però, poi, si fanno delle leggi che fanno a pugni con la Carta Costituzionale».