Ho sempre pensato che Massimo Gramellini - giornalista per anni della Stampa e ora del Corriere della Sera – sia una persona di buon senso e spesso un commentatore acuto. Lo penso ancora. Solo che negli ultimi tempi, su alcuni temi, il buonsenso, nel giornalismo italiano, si è molto spostato. Assomiglia sempre di più a una specie di istinto reazionario.

Ieri Gramellini ha espresso sulla prima pagina del più importante ed equilibrato giornale italiano, la sua opinione sul caso dell’imputato per un reato di pedofilia che ha visto il suo processo dimenticato per vent’anni e poi caduto in prescrizione. Gramellini si è indignato. Giusto. E poi, sempre con toni indignati, ha proclamato che per reati gravi come la pedofilia la prescrizione non dovrebbe esistere. Immagino facilmente che quasi tutti i lettori dell’articolo di Gramellini, che sono moltissimi, abbiano approvato con entusiasmo questa sua proposta. La quale, però, io credo sia insensata. Per due ragioni.

La prima è che se il processo al presunto ( ripeto: pre- sun- to) pedofilo è durato vent’anni, la colpa non è della legge sulla prescrizione ma della magistratura di Alessandria e di Torino che hanno dimenticato chissà dove quel caso di stupro. La seconda è che la durata della prescrizione è già proporzionale alla gravità del reato e non può che essere così. È il codice penale a stabilire quale può essere la pena massima per ogni reato e la prescrizione coincide con quella pena ( nella proposta di riforma Orlando aumentata di un quarto). È chiaro che non si può creare un codice penale parallelo che stabilisce di volta in volta che per alcuni reati però la prescrizione non esiste.

Il concetto che la Giustizia è uguale per tutti significa esattamente questo: che la giustizia è una sola, uno solo è il codice, una sola la procedura. Se esiste una giustizia parallela, dettata magari dalle emozioni di massa e dalle pulsioni del momento, o da una emergenza, o da un interesse particolare, quella non è più giustizia, è semplicemente politica, nel migliore dei casi, oppure è demagogia ( usando questo termine non in senso spregiativo, ma solo per indicare una tendenza intellettuale di sottomissione al senso comune). La giustizia, per esistere, deve essere autonoma dalla politica e dalla demagogia.

Dentro l’idea di “doppia” giustizia c’è anche il concetto di “doppio garantismo”. E cioè la convinzione che il garantismo vada graduato a seconda della gravità del reato. Se il reato è molto leggero il garantismo può anche essere molto largo. Ma tanto più il reato è grave, tanto più il garantismo va ridotto o addirittura eliminato del tutto. Ecco, questa idea non è una degenerazione dell’idea di Diritto ma ne è la totale negazione. Il grado del garantismo deve essere casomai sempre più grande quanto più è grande il reato, non viceversa. Un errore giudiziario su un piccolo reato è grave ma forse è sopportabile. Non è sopportabile l’errore giudiziario in caso di omicidio o, appunto, di stupro di una bambina. E’ così difficile capirlo?

E invece la norma, anche nel giornalismo, è la tesi secondo la quale quando le accuse sono odiose è inutile interrogarsi tanto sulla colpevolezza dell’imputato. Sempre Gramellini scriveva: « Le prove del reato sono scolpite nel suo corpo ». Ma il problema è che non servono le prove del reato, servono le prove che inchiodano il colpevole. Mi riesce persino difficile spiegarlo questo concetto, che pure è così banale. Ma che non riesce a diventare spirito pubblico. È come quando, dopo una sentenza di assoluzione, si fanno sui giornali quei titoli, frequentissimi: « strage tal dei tali, nessun colpevole ». Per indicare la follia di una sentenza che nega la strage. No: la sentenza non nega la strage, nega che i colpevoli siano quelli indicati dal Pm. E’ una cosa completamente diversa. Il fatto che Pietro Valpreda ( magari qualcuno, un po’ vecchio come me, se lo ricorda...) non avesse messo la bomba a piazza Fontana (e nemmeno Pino Rauti) non vuol dire che la bomba non è esplosa, ma che Valpreda (e Rauti) non erano i colpevoli.

Detto, a fatica, tutto questo (e senza la speranza di essere capito dai giornalisti italiani, i quali, infatti, ieri, parlavano tutti dello stupratore prescritto, senza neanche prendere in considerazione l’ipotesi di usare quella parolina che ci hanno insegnato a scuola: “presunto”) diciamo pure che la prescrizione non è una invenzione di avvocati praticoni, ma è un principio di giustizia che serve, tra le altre cose, a garantire anche l’attendibilità delle sentenze. Chiedete a un criminologo qualunque se esiste qualche attendibilità in un processo che si svolge a 20 di distanza dai fatti, quando le prove sono distrutte, i ricordi vaghi e magari distorti, i testimoni scomparsi o privi di memoria nitida. Abolire la prescrizione non solo è contro la Costituzione repubblicana che prevede la ragionevole durata del processo, ma contro la giustizia, che diventa un terno al lotto. Di questo è assolutamente consapevole anche la parte più moderna e saggia della magistratura.