I partiti tradizionali sono in fase di liquefazione, non solo in Italia ma in tutta Europa. È difficile che essi risorgano o che nuove aggregazioni si possano formare se non veniamo in chiaro sulle cause della crisi. A me sembra che la causa fondamentale stia in un cambiamento epocale che tutti noi facciamo fatica a mettere a fuoco: si è bloccato il meccanismo della crescita economica e, con esso, quello della politica tradizionale. La politica tradizionale si occupava fondamentalmente della redistribuzione della ricchezza. Ogni anno il pil cresceva di una certa percentuale e questo generava entrate crescenti per il bilancio pubblico. La politica si occupava di selezionare le domande che venivano dalla società e di decidere quali soddisfare e quali no, quali soddisfare di più e quali di meno. Oggi il pil non cresce, non ci sono benefici da distribuire. Ci sono invece sacrifici da distribuire. Non c’è da meravigliarsi se il vecchio sistema di aggregazione del consenso non funziona più. La gente si sente minacciata, non capisce quello che sta accadendo e comincia la ricerca del capro espiatorio. Di chi è la colpa? Chi è che deve pagare? Se si individua il colpevole (che non sono io) e si capisce chi è che deve pagare (e, di nuovo, non sono io) allora io posso continuare a vivere più o meno come prima. I movimenti populisti vivono di questa angoscia e la alimentano ma non hanno medicine efficaci da prescrivere.Perché si è inceppato il meccanismo della crescita? Il primo motivo è la globalizzazione.La globalizzazione agisce in due modi.Quando si forma un mercato mondiale i capitali si spostano verso i paesi che offrono loro condizioni migliori. Con i capitali si spostano ovviamente anche i posti di lavoro. Nei settori che richiedono grandi quantità di mano d’opera a basso costo i paesi poveri hanno un vantaggio competitivo imbattibile e da essi i paesi ricchi devono uscire. I paesi poveri diventano ricchi ed i paesi ricchi diventano poveri. Questo è quello che sta succedendo a livello mondiale. Non hanno tutti i torti i populisti quando dicono che la mondializzazione ci rovina. In un mondo che complessivamente diventa più ricco noi invece diventiamo più poveri. I populisti non sbagliano in questa diagnosi. Sbagliano nella terapia che propongono. Vorrebbero chiudere le frontiere e bloccare il commercio internazionale ma noi siamo una grande nazione commerciale. Se chiudiamo le nostre frontiere agli altri gli altri chiuderanno le loro frontiere a noi e noi moriremo di fame. È allora inevitabile un progressivo impoverimento del nostro paese? No, non è inevitabile. È però necessaria una gigantesca operazione di riconversione del nostro sistema produttivo. Abbiamo bisogno di investire in ricerca, sviluppo ed innovazione. Abbiamo bisogno di fare cose che contengono in se stesse ricerca scientifica, design avanzato, formazione professionale di eccellenza. Dobbiamo fare cose che i cinesi ancora non sanno fare. Dobbiamo spostare una quota sempre più alta delle nostre produzioni verso l’eccellenza, in settori nei quali non è tanto importante il prezzo quanto la qualità. Ovviamente questo è possibile se migliora la scuola, la formazione professionale, la ricerca scientifica. Se i tribunali rendono giustizia in un modo più rapido e più prevedibile. Se la Pubblica Amministrazione diventa più efficiente e più cooperativa con il sistema dell’impresa. Se c’è un grande sforzo collettivo per far crescere la produttività e la competitività del paese.Alcuni paesi avanzati hanno fatto o stanno facendo il grande passaggio dall’economia industriale o dalla economia dei servizi tradizionale alla economia della conoscenza. Sono, per esempio, gli Stati Uniti e la Germania che, infatti, nella grande transizione non se la cavano troppo male. Altri questo passaggio non lo hanno fatto (per esempio l’Italia dove la produttività non cresce da venti anni).Per fare questo grande passaggio serve una nuova politica, una politica che non taccia al paese la gravità della sfida davanti alla quale ci troviamo ed il rischio mortale di scivolare nel sottosviluppo. Occorre però che questa politica sappia dare al paese la fiducia che questa sfida siamo in grado di vincerla. Il problema non è solo politico. È culturale. Per anni abbiamo predicato una cultura dei diritti. Adesso dobbiamo diffondere una cultura dei doveri e della responsabilità. Dobbiamo mobilitare le energie dell’Italia.Il mio amico Fabrizio Cicchitto ha lanciato dalle colonne di questo giornale un appello a ricostruire in Italia un centro politico. La stessa cosa ha detto più o meno in contemporanea Angelino Alfano. Naturalmente condivido questi appelli. Credo però di dover porre una domanda: un centro politico per fare cosa? Il vecchio centro politico italiano non era certo immune dal modo di fare politica che è finito. Dovremmo cominciare a delineare con chiarezza i lineamenti culturali ed i programmi del centro politico di domani.Io comincio con il proporre un contenuto: il centro politico di domani deve porre con chiarezza ed intransigenza il problema della produttività e della competitività del paese al centro del proprio programma politico.